13 September 2013

Siria: la rivoluzione è finita

Aleppo. Nella sede del coordinamento di attivisti civili di Ashrafiyya
Mohamed lo capisci da come guarda la ragazza in rosa del tavolo a fianco al nostro, che erano dieci mesi che non usciva da Aleppo. Le curve dei suoi seni gli riempiono di bellezza gli occhi rossi di stanchezza eppure pieni di vita. Ieri non ha dormito per entrare in Turchia clandestino, a piedi. L’abbiamo recuperato noi di qua dal valico e l’abbiamo portato a Gaziantep, in Turchia, a scolarci una bottiglia di raki per festeggiare la sua prima libera uscita dopo trecento giorni di guerra. Stanotte dormirà finalmente senza il rumore delle bombe e sognerà l’amore della ragazza in rosa, e avrà il volto di Rita che ha lasciato a Damasco un anno fa, prima che mollasse l’ultimo anno di liceo e si venisse a arruolare volontario nell’Esercito siriano libero. E quando domani mattina si sveglierà con il cerchio alla testa della sbornia, sarà già tempo di ripartire per Aleppo. Stavolta però senza armi. Perché Mohamed ha deciso di lasciare la guerriglia. L’obiettivo del viaggio è montare un’antenna sulle colline di Dar Taizzah. Il materiale è già pronto. E presto le trasmissioni di Radio Nevroz, la prima radio libera in lingua araba e curda, raggiungeranno le case di Aleppo e Afrin.

Ad Aleppo, gli inviati della radio saranno gli attivisti del Coordinamento curdo della fraternità (Tansiqiyyah al Taakhi al Kurdi). È un collettivo di giovani studenti universitari, classe media, composto da curdi e da arabi, musulmani e cristiani. La sede si trova nel quartiere di Ashrafiyya, ad Aleppo, in un appartamento al secondo piano di un palazzo scalcinato già colpito due volte dalle bombe del regime. Qui trovano rifugio gli attivisti del quartiere e i loro ospiti di passaggio ad Aleppo, come me e la fotografa siriana nella stanza a fianco arrivata stanotte da Beirut. Il fumo delle sigarette annebbia il salotto. E le casse dello stereo sparano a tutto volume la playlist della rivoluzione, su cui i ragazzi cantano a voce alta per farsi coraggio e non sentire gli spari fuori in questa ennesima notte di scontri.

Le pareti intorno sono ricoperte da striscioni e bandiere. Ci sono scritti gli slogan dei tanti cortei organizzati dal coordinamento tra il 2011 e il 2012, prima che la voce delle armi coprisse quella delle idee. “Noi siamo gli attivisti della prima ora”, mi racconta Wassim. “Non quelli che in piazza non li ha mai visti nessuno, e che oggi parlano a nome della società civile siriana, a libro paga del Qatar o degli americani. La società civile siriana è diventata un business per molti, un po’ come l’opposizione all’estero. Ad Aleppo si muore sotto le bombe ogni giorno e loro negli alberghi a cinque stelle in giro per il mondo.”

Accanto alle bandiere della Siria libera, sul muro c’è un grande manifesto con su scritto un nome: “Kamal”. E sotto: “Ci manchi”. Kamal era uno dei membri fondatori del gruppo, insieme a Shiro, Wassin e Bushkin. L’ultima volta l’hanno visto un anno fa, mentre due agenti in borghese lo cacciavano a calci dentro una macchina e lo portavano via. Da allora non sanno più niente di lui. Se sia ancora detenuto, se sia vivo, se sia morto. Kamal non è l’unico a mancare all’appello. Anche Pesheng non è con noi stasera. È il fratello di Shiro. Da qualche settimana dorme in un letto d’ospedale in Turchia, a Gaziantep, in attesa che gli ricostruiscano il ginocchio, frantumato dalle schegge di un mortaio che l’ha colpito mentre con una digitale documentava gli scontri tra i suoi vecchi amici in armi e gli uomini del regime.

Oggi per poco anche Raid non ci rimane. È uno dei fotografi del coordinamento, uno studente universitario di ventitré anni. Era uscito di casa stamattina con il sorriso degli avventurieri. È tornato a notte fonda, in barella, con un braccio e una gamba ingessati, e la carne tritata dalle schegge di una bomba. Ma in queste dinamiche di gruppo, il sangue fa onore. E come se niente fosse, Raid si sistema tra noi sul tappeto dove siamo seduti, e tra il groviglio di cavi dei caricatori e del modem satellitare afferra il suo computer con la mano buona. La signora del piano di sopra gli ha appena portato tè e zucchero. Lui posa la tazza in un angolo senza troppa attenzione e digita la password del suo account Facebook. È notte e, ferito o no, deve prima di tutto postare in rete il girato. Perché il mondo sappia anche oggi.

Aleppo. Un attivista del coordinamento civile di Ashrafiyya gira un'intervista
Facebook, Youtube, Twitter, Skype. Senza i social network sulla Siria non sapremmo niente. Perché è lì che ogni giorno gli attivisti siriani come Raid, Pesheng, Shiro, Bushkin e Wassim caricano immagini, video, e notizie in presa diretta. Soprattutto dalle zone più difficili da raggiungere per i corrispondenti stranieri. Il vero lavoro sul campo lo fanno loro. E le tv satellitari si limitano a mandare in onda i loro video amatoriali. Se abbiamo saputo delle manifestazioni, delle torture, dei bombardamenti aerei, degli Scud e delle armi chimiche, è prima di tutto merito loro. Di questi giovani, tendenzialmente universitari e figli della classe media siriana, che anziché prendere le armi come hanno fatto i loro coetanei dei quartieri popolari e delle campagne, hanno impugnato la telecamera. Dall’inizio della guerra ne sono morti almeno un centinaio sotto le bombe. Eppure Hazim non ha paura. E non è per la spavalderia dei suoi ventisei anni.

Lui dalla Siria era fuggito in Turchia per mettersi in salvo dopo il primo arresto ai tempi delle manifestazioni, come hanno fatto migliaia di altri militanti. A Istanbul aveva subito trovato lavoro come web designer. Pagato bene e con delle buone prospettive di crescita. Ma non ha resistito a lungo. “Ascoltavo sempre le notizie in tv. Massacri, morti, ingiustizia. Mi sentivo in colpa perché stavo bene. Finché un giorno mi sono chiesto se il mio sangue valesse di più del sangue dei miei fratelli e delle mie sorelle. Il giorno dopo sono partito per Aleppo”.

Nel quartiere di Bustan al Qasr, Hazim ha messo su l’ufficio di design e comunicazione Sumu Media. Progettano siti per i media center della città, girano servizi televisivi per i canali satellitari arabi, stanno disegnando un’animazione sulla guerra per il canale dei bambini di Al Jazeera e curano la grafica di Inchiostro, penna e fucile”, uno dei primi settimanali liberi di Aleppo. Hazim mi passa una copia della rivista fresca di stampa e ha un sorriso disegnato sul volto. “È la mia città, è la mia gente. Io voglio esserci. So che potrei morire anche oggi. Ma morirei felice, sapendo che ho dato il mio contributo alla rivoluzione. Perché è vero che abbiamo fatto molti errori: l’opposizione divisa, i saccheggi dell’esercito libero, gli eccessi degli islamisti… Tuttavia siamo nel giusto. E la storia ci darà ragione”.

Saranno anche nel giusto gli stanchi attivisti di Aleppo. Tuttavia sono soltanto le ceneri di quello straordinario e pacifico movimento di piazza che tra il 2011 e il 2012 portò in piazza milioni di siriani contro la dittatura. Migliaia di loro sono stati fucilati nelle manifestazioni. Migliaia sono morti sotto tortura nelle segrete del regime. Migliaia sono ancora in carcere. E migliaia sono fuggiti oltre confine: alcuni per mettersi in salvo, altri semplicemente perché non credono più nella rivoluzione.

Abu Jafar è uno di loro. L’ho conosciuto in un caffè letterario ad Afrin, una città curda nel nord della Siria. È un professore universitario sulla sessantina, laico, ex membro del partito comunista siriano. Prima che lo intervistassi mi ha chiesto notizie della strada per Aleppo. Le due figlie ventenni sono bloccate in un quartiere lealista. Ha paura che muoiano sotto le bombe dell’Esercito siriano libero. Ma ha ancora più paura che andandole a prendere, sulla via per Aleppo lo fermino le milizie di Al Qaeda e lo facciano fuori perché è curdo o perché non crede in dio. E gli bastano queste due paure per dire che la rivoluzione è finita.

“Certo che all’inizio ero in piazza! La rivoluzione siriana è stata un movimento straordinario. Spontaneo, laico, trasversale, ricco di idee. Ma con la guerra è finito tutto. Oggi comandano le armi e non le buone intenzioni di quei pochi e bravi attivisti che ancora ci credono. Il nostro obiettivo era costruire una Siria libera e democratica. Ma per farlo, non basta abbattere il regime di Assad. Servono idee. E io credo che la guerra abbia ucciso anche quelle”.


Questo articolo è stato pubblicato in italiano su Internazionale, in tedesco su Taz e in inglese su Al Monitor