Il corpo di Abu Abed nella moschea di Sukkari ad Aleppo, foto di Alessio Genovese
ALEPPO - Avevo conosciuto Abu Abed la sera prima, all'ospedale Zarzur, insieme ad Abu Moaz e Abu Zeid. Lasciati i fucili all'ingresso della clinica e trascinati dalla voce di petto di Abu Zeid, avevano intrattenuto medici e infermieri per una buona mezz'ora con tutto un repertorio di canzoni di guerra. Canzoni che incoraggiano i ragazzi a impugnare le armi, a dire addio ai propri familiari e a partire per la guerra. Una guerra combattuta nel nome di dio per porre fine all'ingiustizia e all'oppressione e per diffondere l'islam. Senza temere mai di morire. Perché chi muore da martire nella via del signore, vivrà in paradiso in eterno. È quello che gli uomini di religione chiamano jihad. Ed è quello che sta spingendo centinaia di giovani da tutto il mondo a unirsi alla rivoluzione siriana. Ragazzi come Abu Zeid e Abu Moaz, che in Siria sono arrivati da molto lontano.
Sì perché Abu Zeid “il cantante” non è siriano, bensì tunisino. È venuto ad Aleppo un mese fa. I contatti giusti li ha avuti tramite un gruppo salafita di Sfax e il fucile belga di alta precisione con cui fa il cecchino nelle fila dell'Esercito libero, lo ha comprato di tasca propria. Abu Moaz invece è egiziano. E prima di partire faceva il professore di storia islamica all'università di Al Azhar, al Cairo. Sono entrambi trentenni. La stessa età di Abu Abed, dei tre l'unico siriano, che prima della rivoluzione faceva l'imam in una moschea di Aleppo e che per le sue prediche contro il regime era già stato condannato a tre anni di carcere nel 2008.
Ad unire Abu Zeid, Abu Moaz e Abu Abed è la bandiera sotto cui combattono. La bandiera nera del jihad. La stessa che da un mese sventola sopra la scuola di Sukkari, che ad Aleppo è la sede di una delle più importanti brigate rivoluzionarie islamiste: gli Ahrar Al Sham, i Liberi del Levante. Sopra c'è scritto in arabo "La ilaha illa allah wa Mohammad rasul allah". “Non c'è altro dio all'infuori di dio e Mohammad è il suo profeta”.
Per anni quella bandiera nera è stata usata da una miriade di sigle del terrorismo islamico. Nella Siria di oggi però è diventata il simbolo dell'internazionalismo islamista. Sì perché nella scuola di Sukkari fanno base combattenti di mezzo mondo. Libici, sauditi, ceceni, tunisini, afghani, ma anche francesi e australiani.
Hanno le barbe lunghe, il turbante nero, pantaloni mimetici militari, e un kalashnikov in spalla. Tra di loro ci sono alcuni veterani della guerra, come i ceceni, i libici e gli afghani. Altri invece sono ventenni alla prima esperienza. Non tutti hanno una formazione islamista radicale. Tanti sono venuti semplicemente per seguire un grande ideale di solidarietà con la comunità musulmana sunnita siriana, a cui sentono di appartenere al di là delle frontiere. Né più né meno come i comunisti italiani che nel 1936 andarono in Spagna a combattere contro il fascismo.
Per la loro partecipazione alla guerra, non otterranno niente in cambio. Al contrario, sanno che la maggior parte di loro morirà presto in battaglia. Quello che non sanno è che chi si salverà, non riuscirà a conservare il proprio idealismo. Perché come tutte le guerre, questa è una guerra sporca.
Un uomo uscito dalla base degli Ahrar El Sham va a bruciare i vestiti dei condannati a morte, foto di Alessio Genovese
Sporca come il sacco sulle spalle del vecchio appena uscito dalla sede della brigata islamista. Gronda sangue. Dentro ci sono i vestiti degli shabbiha catturati nei giorni scorsi. Si tratta dei criminali assoldati dal regime per perseguitare gli oppositori. A tagliare loro la gola è stato l'afgano, con una specie di spada. I corpi li hanno sepolti nella piazzola sotto il cavalcavia, dove hanno già sotterrato un'altra ventina di sgherri del regime giustiziati alla stessa maniera. Il vecchio ora sta andando a bruciare i loro panni.
Nessuno dei combattenti però presta attenzione al suo passaggio. Perché nel frattempo è arrivata una macchina in corsa. I primi a scendere sono Abu Zeid e Abu Moaz. C'è un cadavere a bordo da scaricare. Si tratta di Abu Abed. E' successo tutto un'ora prima. Il colpo di mortaio è esploso a un paio di metri dall'auto. E per Abu Abed non c'è stato niente da fare.
Adesso il suo corpo freddo giace su una barella al centro della moschea di Fatima Aqila, avvolto in un lenzuolo bianco macchiato di sangue. Abu Zeid lo bacia sulla fronte ingiallita per un ultimo saluto. Più in disparte, Abu Moaz seleziona sul telefonino la nuova immagine di sfondo. È l'ultima foto che ha scattato ad Abu Abed con le sue due bambine prima che partisse per la guerra.
Abu Zeid "il cantante" dà un ultimo saluto a Abu Abed, foto di Alessio Genovese
I pianti degli uomini in armi durano poco. Il sole è già alto e Abu Abed deve partire per il suo ultimo viaggio. La tradizione vuole che sia seppellito prima del tramonto nel suo villaggio natale, sulle colline di Atma, lungo la frontiera con la Turchia.
Il viaggio dura molto più delle due ore previste. Prima ci fermiamo nelle campagne a nord di Aleppo per scaricare un gruppo di combattenti ceceni lungo una nuova linea del fronte. Poi visitiamo una fattoria dove sono nascosti una cinquantina di combattenti degli Ahrar el Sham per dare loro la notizia del martirio di Abu Abed.
Quando arriviamo ad Atma è già buio. Una folla di un centinaio di persone circonda il pickup con il cadavere a bordo. Dalle finestre della casa a fianco si odono i singhiozzi di una donna che piange. Dura tutto pochissimo, perché immediatamente la folla si muove in un corteo che accompagna il cadavere verso il cimitero, gridando ripetutamente: “Dio è grande e il martire è amato da dio!”.
La fossa è già stata scavata. Abu Moaz, il professore egiziano, dirige la preghiera. Illuminati da un paio di pile in mezzo alla notte oscura, tre ragazzi del paese iniziano a ricoprire di terra il cadavere, con la massima cura. Il viaggio di Abu Abed finisce qui. Ma per uno che parte altri otto ne arrivano.
Il funerale di Abu Abed ad Atma, foto di Alessio Genovese
Li incontriamo il giorno dopo sui sentieri del contrabbando lungo la frontiera tra Turchia e Siria. Quattro sauditi, due afroamericani, un siriano britannico e un neozelandese. Scendono a piedi dalla collina. Hanno le barbe lunghe, un piccolo zainetto alle spalle e gli occhi eccitati di chi parte per un'avventura che è un grande viaggio di iniziazione.
Un recente rapporto dell'Istituto svedese di affari internazionali, stima che i combattenti internazionali presenti in Siria siano tra gli 800 e i 2.000, circa il 5% delle forze dell'esercito libero siriano. Le principali brigate jihadiste che accolgono i combattenti internazionali sono il Jabhat el Nusra e gli Ahrar el Sham. Il Jabhat el Nusra (Fronte della vittoria) è la più piccola, ma è quella più vicina ad Al Qaeda, almeno a giudicare dal grado di popolarità che gode sui siti internet vicini all'organizzazione terroristica.
La brigata degli Ahrar Al Sham (I liberi del Levante) è invece una delle più importanti fazioni non solo dei mujahidin ma di tutto l'esercito libero. Su facebook hanno una pagina seguita da duemila persone, in cui ogni giorno postano notizie dal fronte e video delle battaglie, con tanto di sigla, montaggio e titoli di coda. L'ultimo post della pagina è dedicato al martire Abu Abed.
In questo momento in cui la partita si gioca tutta con le armi, i mujahidin sono i benvenuti in Siria. Sul lungo termine però, la presenza di milizie armate di islamisti radicali rischia di diventare un serio problema. Ne sono convinti i ragazzi siriani della brigata Al Faruq dell'esercito libero.
Bab El Hawa, uno dei combattenti della brigata Faruq, foto di Alessio Genovese
Ammar è uno di loro. Ha 25 anni e prima della guerra faceva il muratore. Si considera un buon musulmano, e proprio per questo rigetta ogni forma di estremismo: “I siriani non condividono il pensiero dei mujahidin. Questa è una guerra di liberazione. Non vogliamo uno stato islamico, vogliamo una democrazia. E i mujahidin devono capirlo prima possibile, altrimenti rischiano di fare tutti la fine di Absi”.
Cittadino britannico, Mohamed Shami El Absi era a capo del “Mujahidin Shura”, un battaglione internazionalista che aveva portato in Siria una cinquantina di mujahidin, soprattutto britannici di origini asiatiche, ma anche canadesi e australiani. Il battaglione di Absi aveva partecipato nel giugno 2012 alla liberazione di Bab el Hawa, un posto di frontiera con la Turchia a nord di Idlib. Subito dopo però erano iniziati i problemi con la brigata locale dell'esercito libero, Faruq.
“Prima i mujahidin volevano issare la bandiera nera di Al Qaeda e fondare un emirato islamico – racconta Mohamed, un vecchio marinaio siriano della brigata Faruq -. Poi hanno sequestrato due giornalisti. A quel punto dovevamo fare qualcosa e li abbiamo attaccati”.
Era la fine di agosto, lo scontro si è concluso con l'omicidio di Absi e di quattro dei suoi uomini, e con un deciso ridimensionamento della sua brigata. Episodi come questo sono destinati a ripetersi. Anche perché il ruolo dei mujahidin in Siria sta crescendo.
I finanziamenti e l'esperienza militare che hanno a disposizione infatti, danno loro un peso crescente all'interno di un esercito libero siriano sempre più a corto di soldi e di munizioni. Lo stesso succede dal punto di vista ideologico. Perché la repressione del movimento civile, democratico e non violento che aveva animato la rivoluzione siriana diciotto mesi fa, ha lasciato il vuoto. Le teste pensanti del movimento sono scomparse. Chi è morto, chi è stato arrestato e chi è fuggito all'estero per salvarsi la vita. E ormai sul terreno parlano soltanto le armi e gli uomini di religione. E intanto la gente comune continua a fuggire.
2/5 CONTINUA
Un estratto di questo articolo è stato pubblicato in Germania su Taz
In Italia è stato esressamente rifiutato - tra gli altri - da Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa, L'Espresso e Vanity Fair. Alle testate minori non è stato mai proposto, viste le vergognose condizioni di sfruttamento lavorativo che praticano.
In Italia è stato esressamente rifiutato - tra gli altri - da Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa, L'Espresso e Vanity Fair. Alle testate minori non è stato mai proposto, viste le vergognose condizioni di sfruttamento lavorativo che praticano.
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