12 September 2011

Rivoluzionari e razzisti? Uno speciale da Tripoli libera


Un mercenario nigerino fuggito mostra la carta dell'esercito di Gheddafi, Jeuneafrique
Sono rientrato giovedì scorso dalla Libia, dopo aver trascorso due settimane prima con i partigiani berberi sulle montagne del Jebal Nafusa, nella cittadina di Yefren, e poi con i ragazzi di Fashlum, il primo quartiere di Tripoli che il 17 febbraio scese in piazza sfidando il regime. Mi scuserete se scrivo con tanto ritardo, ma speravo di trovare prima una qualsiasi testata giornalistica interessata ai miei pezzi. Non avendola però trovata, procedo a regalare questi racconti alla rete. Partiamo dalla questione che più interessa ai lettori di questo sito. Ovvero il rapporto tra rivoluzione e razzismo, e i timori che la liberazione di Tripoli si potesse trasformasse in un attacco indiscriminato contro la minoranza nera della città. A fine agosto i giornali di mezzo mondo hanno gridato alla caccia ai neri di Tripoli, agli stupri e alle retate. La realtà però è diversa, più complessa e insieme contraddittoria. Gli eccessi ci sono stati, qualche arresto di troppo era inevitabile con un'armata popolare di migliaia di ragazzi e ragazzini ancora sotto schock per il sangue versato nella battaglia che ha liberato Tripoli al prezzo di centinaia di morti. Quelle violenze e quegli abusi sono sempre da condannare. Ma il racconto non finisce lì.

La vera caccia che si è fatta a Tripoli nei giorni immediatamente successivi alla battaglia che ha liberato la capitale libica tra il 20 e il 25 agosto, è stata la caccia ai miliziani di Gheddafi. Libici o mercenari che fossero. Perché dopo la fuga del ra'is e dei suoi figli in direzione di Bani Walid, parte delle forze armate lealiste si è dispersa in città anziché seguire la ritirata di quello che rimane del vecchio regime. Compreso un gruppo di circa 350 mercenari di cui non si sa esattamente quanti siano ancora nella capitale. Di questo gruppo di mercenari si parla da luglio, da quando il direttore dell'albergo Wahat informò una cellula dei ribelli di Tripoli della presenza dei mercenari nel suo albergo, a carico del ministero degli affari sociali del governo di Gheddafi.

Dopo una settimana di pattugliamenti e perquisizioni casa per casa, e al netto dei molti che sono stati rilasciati per insufficienza di prove, si parla di circa 600 prigionieri in tutta la capitale, tra alti ufficiali, miliziani, volontari e presunti mercenari.

Gli arresti hanno interessato anche molti stranieri - fondamentalmente africani, ma anche un paio di palestinesi, un siriano e un ucraino – accusati di far parte della milizia dei mercenari che da febbraio ha seminato il terrore in città e sul fronte, al fianco dei militari libici. Soldati professionisti, arruolati soprattutto in Chad e in Niger, secondo quanto ammesso dagli stessi mercenari.

Alcuni di loro infatti sono riusciti a fuggire dal campo di battaglia e a fare ritorno sani e salvi in Niger, a Agadez, dove hanno raccontato tutto alla stampa nigerina e francese. L'accordo con Gheddafi sarebbe stato negoziato direttamente da uno dei leader del fronte armato dei touareg nigerini. Per ogni combattente erano previsti un passaporto libico e 5.000 euro in contanti.

Durante il mio soggiorno a Tripoli, ho avuto modo di visitare tre centri di detenzione temporanei (due scuole e una palestra) e due ospedali. La maggior parte degli arrestati sono libici, una metà libici bianchi e una metà libici neri. Mentre tra gli stranieri prevalgono chadiani e nigerini, molti dei quali hanno però la doppia cittadinanza libica. La maggior parte dei libici con cui ho parlato, hanno ammesso di aver preso parte agli scontri come volontari delle milizie del regime o addirittura come militari professionali.

I motivi che li hanno spinti all'arruolamento sono perlopiù economici. L'ignoranza, il condizionamento ideologico e la propaganda del regime hanno fatto il resto. Molti di loro infatti ci hanno raccontato che erano convinti di difendere la patria dai terroristi di Al Qaeda e da bande armate di mercenari algerini e egiziani che volevano occupare la Libia.

Tra i prigionieri africani invece, prevale il numero di chi si proclama innocente. E probabilmente una buona parte di loro lo sono per davvero. Tuttavia alcuni non sono stati in grado di spiegarci come mai siano venuti dal Chad a Tripoli a metà agosto, ovvero in piena guerra, oppure come mai avessero nei telefonini dei video girati sul fronte, o infine come avessero fatto a ottenere un passaporto libico dopo una sola settimana dal loro ingresso in Libia, non parlando nemmeno l'arabo, oltretutto a marzo dunque a guerra già iniziata.

Molte delle persone con cui ho parlato, miliziani del regime e presunti mercenari, sono stati feriti sul fronte, e si trovano ricoverati negli ospedali di Tripoli, dove ho potuto verificare come ricevano lo stesso trattamento medico riservato ai partigiani libici. Con la differenza che dopo le cure finiranno dritti in carcere, in attesa di un processo. Chi proverà la propria estraneità alle accuse sarà rilasciato, come già sta accadendo in questi giorni a molti prigionieri – libici e africani - ingiustamente arrestati e che hanno trovato testimoni pronti a scagionarli. Chi sarà invece trovato colpevole di avere ucciso rischia la pena di morte. E qui c'è da preoccuparsi molto. Perché in questo momento di caos, è elevatissimo il rischio di errori giudiziari e di sentenze sommarie con insufficienza di prove.

Ed è un motivo di maggiore preoccupazione il fatto che finora il governo transitorio stia vietando l'accesso alle carceri alla stampa e alle organizzazioni umanitarie indipendenti. C'è dunque da augurarsi che quanto prima le visite ai prigionieri di guerra siano ristabilite, esattamente come già accade da mesi nella città di Misrata, dove Medici Senza Frontiere ha potuto assistere i detenuti. In questo modo si potrebbe verificare che gli imputati abbiano la necessaria assistenza legale e che si azzeri la possibilità di sentenze arbitrarie.

Questa è soltanto una introduzione. Nei prossimi giorni pubblicherò sul sito alcune storie da Tripoli, cercando di farvi capire che aria si respira in una città che al di là di tutto sta lentamente tornando alla normalità e la cui economia presto tornerà a correre, tirando fuori dalle proprie case tutti i lavoratori africani che in questi giorni sono rimasti nascosti per timori di aggressioni e ritorsioni. E sarà quella stessa economia insieme alla pace ritrovata, a bloccare le partenze per Lampedusa degli stranieri in Libia. Perché mai come adesso c'è bisogno di loro per ricostruire il paese.