24 September 2011

Lampedusa bruciava già. Lettera di Marta Bellingreri

ragazzi tunisini durante la manifestazione a Lampedusa, foto di Alessio Genovese

Ricevo e pubblico questa lettera da chi Lampedusa la conosce bene. Lei è di Palermo, si chiama Marta Bellingreri e sull'isola ha lavorato tutta l'estate con un progetto di un'associazione umanitaria. Dice che ha visto le fiamme dal primo giorno che ha messo piede dentro il centro di accoglienza dell'isola. Era il 15 giugno 2011. E il fuoco era già acceso. Fatto di umiliazioni, vessazioni, violenza, malaffare, silenzi. Non poteva esserci un finale diverso. Con un incendio reale e con la guerra in piazza dichiarata dalle forze di polizia e da alcuni lampedusani. Le braci di quell'incendio però sono ancora accese. Si trovano nel porto di Palermo sui nuovi Cie galleggianti dove sono stati trasferiti i tunisini ribelli. Circa 700 ragazzi, guardati a vista da più di 500 agenti delle forze dell'ordine. Il porto è blindato. E per la città è l'ora di decidere da che parte stare. Marta Bellingreri la sua scelta l'ha fatta da tempo. Leggete la sua lettera e forse capirete meglio come si è arrivati a tutto questo.

Lampedusa bruciava già, di Marta Bellingreri

Tornano i riflettori su Lampedusa prima che a tornare sia Baglioni: come una giornata di numerosi sbarchi, come per una protesta significativa, come per dei tunisini in fuga…infine l'incendio. Quello che chi lavorava sull'isola si aspettava da almeno un mese, esattamente dal 21 agosto, con il respingimento in mare di 104 tunisini, dei quali solo 7 sono stati fatti sbarcare. Da allora sono ripresi costantemente sbarchi di tunisini, trasferimenti nei CIE o rimpatri. Ci si aspettava che scoppiasse da tempo, le fiamme sono state alimentate lentamente, l'incendio è il fatto eclatante , ma nella quotidianità l'ingiustizia silente ha bruciato le persone, le speranze , la libertà.

Il centro per me bruciava da tempo, da quando ci ho messo piede la prima volta il 15 giugno, il centro per me brucia quando non si capisce perchè stare un mese in carcere senza aver compiuto reati, il centro brucia quando i minori che scappano per andarsi a fare un bagno vengono ripescati in acqua dalla polizia in tenuta antisommossa, pur essendo quei minori privati della libertà personale e trattenuti illegalmente per un mese; il centro brucia quando nonostante le denunce fai la fila per il cibo insieme alla persona che ti ha accoltellato durante il viaggio in mare; il centro brucia quando un neonato per errore viene lavato con acqua calda e ustionato; il centro brucia quando perfino i mediatori vengono strattonati perché "pensavo fossi un tunisino"; bruciavano le ferite delle punture di zanzare e insetti, bruciavano sulla pelle le scottature dei tunisini in mare prese durante le ore cocenti del giorno, che per qualche operatore del centro erano le ore di chi "si fa a' gita, si pigghia u panino a mattina e arriva la sera e voli manciari"; il centro brucia e poi puzza di mafia, ma le ceneri di quest'ingiustizia non volano via come il vento.

Il centro bruciava sempre, ma adesso c'è la visibilità e la triste scusa per dire che ci sono dei colpevoli chiamati oggi tunisini. Ma tanti altri posti dovrebbero allora bruciare.

Le giornate del 20 e del 21 settembre sono state ovviamente un disastro, ma un disatro aspettato, nel centro che ora dicono che non c'è. Almeno in parte carbonizzato, la parte funzionante non danneggiata ha ospitato ancora uomini e donne tunisini , ma forse da questa sera non ce ne saranno più. Adesso il centro galleggia, è una nave CIE già sperimentata come idea nei mesi passati, ma le fiamme non si spengono.

Quando è scoppiato l'incendio, hanno portato via subito i disabili, tra cui quel paraplegico del 21 agosto appunto ancora trattenuto nel centro dove si dovrebbe sostare 48 ore; un altro sulla sedie a rotelle e due con le stampelle, mentre chi aveva le proprie gambe e il proprio sacco in mano scappava, superando il fumo nero che avanzava. I minori e famiglie con bambini erano già da una settimana nell'altro centro e in appartamenti a Cala Creta.

L'aver insistito costantemente per il trasferimento di famiglie e minori, se non dall'isola come auspicato, almeno dal Centro, è una prova di come la situazione fosse esplosiva e molto prevedibile. Nelle proteste pacifiche del 29 agosto, 5 e 7 settembre, momenti di tensione si alternavano a momenti di fruttuosa discussione ed informazione, racconti di storie che al centro, separati dai cancelli che chiudevano nel gabbio gli adulti, non si potevano sempre fare, per chi come me passava la maggior parte del tempo con minori, anch'essi spesso esasperati e in fuga. Ma già alcuni dicevano che avrebbero bruciato il centro. Senza libertà, chiusi in un gabbio da un mese, con notizie di rimpatri e CIE per 18 mesi, che cos'altro puoi pensare?

Nessun ferito, tutti intossicati. POi toccava ai lampedusani sfogarsi: picchiare, girare con le mazze, schiaffeggiare operatori, mediatori e giornalisti così come tunisini, almeno per loro non c'è il distinguo razziale. Cittadini dell'isola, frenati solo dal ritorno di quella apparente e silente calma della Madonna di Porto Salvo, patrona dell'isola, e dall'assenza di tunisini per strada perché quando non ci sono, allora neanche i problemi sussistono. Ma i lampedusani restano intossicati perchè la Madonna di Porto Salvo questa volta non gliela lava la coscienza, dato che in quel porto non avrà più nessuno da salvare.

Deportazioni, rimpatri di massa, trasferimenti insensati non risolvono la domanda che la Tunisia e il sud del mondo ci pongono da tempo e dato che non abbiamo saputo mai rispondere, vengono direttamente a porgerla, sbarcando.