25 August 2011

Sangue in via Corelli, ricoverati 5 reclusi del Cie

Cie Milano, foto di Simona Granati
Quando Munir ha fatto la corda, i compagni di cella gli sono saltati addosso e gli hanno impedito anche solo di appenderla. Quindi i più grandi si sono messi a parlargli. Con il tono di un fratello maggiore. Come si fa a un ragazzo di 22 anni che ha deciso di uccidersi per porre fine alla propria sofferenza. Perché Munir non ne può più del ferro. Prima la galera, poi il Cie. Vuole viversi la libertà dei suoi vent'anni e non vuole assolutamente rientrare in un paese, il Marocco, che non è più il suo. Sì perché Munir in Italia ci vive da quando era un bambino. A Milano ci sono suo padre, sua madre e tutta la famiglia. L'Italia è il suo paese. Ma l'Italia ha deciso di espellerlo. Perché il suo è un corpo in eccesso, un corpo improduttivo e macchiato per sempre dalla colpa. Roba di poco. Sei mesi di carcere per un po' di fumo che gli trovarono addosso durante un controllo d'identità. Quanto basta per perdere a vita il diritto a un permesso di soggiorno. Al centro di identificazione e espulsione di via Corelli, a Milano, ce lo hanno portato direttamente dopo il carcere, un mese fa. La notte di lunedì scorso aveva deciso di farla finita. Quando gli hanno impedito di impiccarsi, sembrava che gli fosse passata. E invece no. Le due ambulanze sono arrivate alle sei del mattino. E l'hanno portato via insieme a altri quattro tunisini in un bagno di sangue.

Dall'ospedale sono tornati il pomeriggio di martedì, intorno alle 18:00. Coperti di bende bianche sulle braccia, sulle gambe e sulla pancia. Al loro rientro, per sdrammatizzare, i compagni di cella li hanno accusati di aver rovinato il lavandino del bagno, che perde acqua dappertutto dopo che i cinque si sono ingoiati tutte le viti e i pezzi di ferro che hanno potuto smontare dal lavandino. Faceva parte del piano. Aprirsi la carne con una lametta e ingoiare un po' di ferri per lacerare lo stomaco e l'intestino. Ovvero rischiare la vita e sperare di riuscire a fuggire dall'ospedale. Esattamente come avevano fatto due settimane fa altri tre reclusi del Cie di via Corelli, tre tunisini, che prima si erano rovinati braccia e gambe con le lamette e poi erano riusciti a scappare dall'ospedale dove erano stati ricoverati.

Stavolta però il piano è fallito. Non è bastato tagliarsi a fondo con tutta la forza della disperazione. Immaginatevi che il più grave ha avuto 160 punti di sutura... Perché la polizia è rimasta di piantone al pronto soccorso per tutto il tempo, e nessuno è riuscito a scappare. E di bruciare di nuovo il Cie non se ne parla nemmeno.

Ne avevano discusso la sera prima i 28 reclusi del settore di Munir e dei quattro tunisini. Qualcuno sosteneva che l'incendio potesse portare alla chiusura dell'intero settore e dunque alla loro liberazione, memori dell'incendio che il 2 maggio devastò uno dei quattro settori dell'area maschile, da allora inutilizzato in attesa dei lavori di ristrutturazione. Ma alla fine la maggioranza dei reclusi si era detta contraria. Troppi rischi. Alla fine nessuno ha voglia di finire in carcere per incendio e devastazione, e di ritornare al Cie dopo uno o due anni di galera. E allora meglio aspettare, oppure chiedere il rimpatrio volontario, come in molti stanno facendo, non potendo immaginare di passare 18 mesi in gabbia.

Così hanno deciso 10 reclusi, 5 marocchini e 5 tunisini, che martedì scorso hanno fatto pervenire i propri passaporti chiedendo di essere rimpatriati pur di tornare in libertà. Dovrebbero partire entro la fine della settimana. Intanto però continuano le espulsioni forzate. Lunedì hanno espulso un marocchino. Martedì un marocchino, due rumeni e due albanesi. Altri invece sono stati semplicemente rimessi in libertà. Otto persone in tutto. Compresi tre iraniani, un albanese, un rumeno e un marocchino con precedenti penali. I posti liberati sono già stati rimpiazzati nel giro di poche ore da un gruppo di tunisini sbarcati a Lampedusa, dove negli ultimi dieci giorni sono arrivati 482 tunisini.

Li aspetta il rimpatrio forzato o i 18 mesi di gabbia. A meno che il Cie milanese non sia prima scosso da qualche rivolta. Per ora la situazione resta tranquilla, ma è solo questione di tempo. La nuova legge che ha portato a 18 mesi il limite della detenzione nei Cie, è stata applicata soltanto in due casi. A un trans argentino, nel frattempo rilasciato per motivi di salute pochi giorni dopo la proroga a 8 mesi. E a un cittadino marocchino, residente da anni nel bresciano, dove ha una figlia. Per lui oggi sono 7 mesi e 14 giorni di gabbia. Ma è l'unico. Dopo di lui infatti, il recluso più "anziano" è dentro da 4 mesi e 5 giorni. Come dire che prima di un paio di mesi difficilmente la situazione esploderà. Prima cioè che un numero consistente di reclusi scopra che dovrà passare non 6 ma 18 mesi rinchiuso nel Cie. Anche perché nel frattempo, per calmare le acque, operatori sociali e forze dell'ordine continuano a disinformare i reclusi, dicendo loro che la nuova legge non li riguarda.

Per tutelare la privacy dei reclusi abbiamo usato un nome fittizio