11 May 2011

Le mani


Visto da fuori, il centro di identificazione e espulsione di Trapani ha la forma di una mano. Ma non di una sola. Sono almeno una decina. Sono le mani dei suoi detenuti, una sessantina di tunisini recentemente sbarcati a Lampedusa e destinati al rimpatrio. Le loro mani spuntano tra i ferri della gabbia sul ballatoio del secondo piano. E interrogano la fantasia dei passanti, in pieno centro abitato. Alcune si aggrappano alle sbarre. Altre agitano in aria le due dita aperte a v in segno di vittoria. Mentre nel cortile rimbombano le grida della loro ennesima improvvisata protesta. “Libertà! Libertà!”. Gridano a pieni polmoni. Probabilmente è una delle prime parole che hanno imparato in italiano. E il coro di protesta si propaga lungo la strada di fronte che, ironia della sorte, si chiama proprio via Tunisi. Poco distante, affacciato al finestrino di un'auto parcheggiata, un bambino guarda incuriosito masticando una gomma. I genitori probabilmente sono scesi a fare compere. I negozi sono aperti. E nessuno in città sembra più fare caso a quelle grida.

“Libertà! Libertà!” Davanti al cancello siamo solo in quattro. Dentro il cortile, i carabinieri lasciano fare. Da dietro la gabbia, strillando, un ragazzo tunisino ci chiede in francese: “Pensavamo di lasciare la dittatura per trovare la democrazia. Ma dov'è la libertà? È questa la democrazia? D'accordo abbiamo passato la frontiera senza documenti. Ma siamo persone per bene, lavoratori. Perché ci trattano come delinquenti? L'Italia per noi è soltanto un passaggio. Fateci uscire e domani partiamo per la Francia. Siamo stanchi. Fateci uscire!”. Le sue sono parole senza volto. Escono dalle grate senza che si riesca a vedere la sua faccia. Nascosta nella penombra dietro la macchia nera dei ferri della gabbia anneriti dal fuoco dell'ultimo rogo appiccato per protesta la scorsa settimana.

È successo la sera del 4 maggio, quando alcuni tunisini reclusi hanno bruciato materassini, coperte e vestiti al grido di "Libertà!". L'incendio è stato spento dai vigili del fuoco. Dopodiché hanno fatto ingresso nella sezione polizia, militari e carabinieri. Un nostro informatore era presente e ha assistito alla scena. Secondo il suo racconto, gli agenti avrebbero fatto disporre in fila i detenuti e ne avrebbero manganellati alcuni a scopo dimostrativo, visto che non avevano prove per identificare gli effettivi responsabili dell'incendio. E infatti ad oggi nessuno è stato arrestato. In compenso otto ragazzi sono finiti in infermeria per le bastonate ricevute.

Ne accadono spesso di roghi nei Cie. Ma al Vulpitta fa sempre uno strano effetto. Perché riporta la memoria alla notte tra il 28 e il 29 dicembre del 1999. Anche quella sera un gruppo di ragazzi tunisini appiccarono il fuoco ai materassi nella propria cella. Ma quella sera la porta che dava sul ballatoio era chiusa a chiave. E prima che intervenissero i soccorsi, il fuoco divampò e bruciò vivi tre detenuti. Altri tre morirono nelle settimane successive in ospedale. Sei morti per cui nessuno è mai stato ritenuto responsabile, nemmeno l'allora prefetto di Trapani, Leonardo Cerenzìa, che venne prima imputato per omissione di atti d’ufficio e concorso in omicidio colposo plurimo e poi assolto con formula piena.

Da allora è cambiato poco o niente. Se non che la capienza del Cie è stato ridotta da 180 a 57 posti. La struttura però è sempre la stessa. Con le celle una a fianco dell'altra, affacciate in modo così claustrofobico su quell'unico ballatoio ingabbiato. I lucchetti si aprono quattro volte al giorno. Per i pasti, e per l'ora d'aria concessa nel pomeriggio, per giocare nel campetto di calcio nel parcheggio all'ingresso, costantemente sotto la stretta vigilanza degli agenti.

V. di tutto questo non ne può più. Lui è dentro da più di quattro mesi. È lui che ci ha telefonato e raccontato della rivolta. Nelle sue parole, il Vulpitta non si chiama più Cie e non si chiama più nemmeno centro di identificazione e espulsione. Si chiama ferro. Perché il ferro è l'elemento più ricorrente delle sue interminabili giornate sempre uguali a se stesse. “Mi alzo e trovo il ferro, esco dalla camera e trovo il ferro, vado alla mensa e trovo il ferro, dormo e trovo il ferro. Tutti i giorni la stessa cosa. Non riesco più a pensare a niente”. E l'ora d'aria, ovvero i 40 minuti concessi ogni giorno ai detenuti per sgranchirsi le gambe nel cortile della struttura, non servono a granché. “Sì giochiamo un po' a pallone, ma sei sempre circondato dai militari e dalla polizia. Dappertutto, è una cosa schifosa. Anche se vai in infermeria, sempre accompagnato dai militari e dalla polizia. Non siamo delinquenti, non siamo mafiosi, cosa abbiamo sbagliato?”.

Lui l'Italia se l'immaginava diversa, migliore. É partito dalla Tunisia due anni e otto mesi fa. All'epoca c'era ancora la dittatura di Ben Ali. “Non sono partito per i soldi, ma per la libertà. Avevo un lavoro, ma nella vita la libertà è più cara di tutto, è più cara anche dei soldi. E in Tunisia non eri libero di gridare quello che pensavi. Ho attraversato il mare, pensavo di trovare la democrazia in Italia e invece è peggio che da noi. Guarda come siamo finiti!”.

Presto V. sarà finalmente di nuovo un uomo libero. Anche se a dire il vero fino a adesso non ha la più pallida idea di cosa farà. “Non riesco più a pensare. Sei mesi rinchiuso qua dentro, ti rendi conto? Sei mesi buttati via della mia vita... Il mio cervello si è spento. Il ferro, la polizia, non riesco più a pensare a niente. Quando uscirò, vedremo. Ho degli amici, li chiamerò, magari per farmi ospitare i primi giorni, poi cerco un lavoretto. Dipende tutto dalla fortuna”.

E dalla fortuna dipenderà anche non farsi riacciuffare dalla polizia. Come funziona lo sappiamo bene ormai. Esci dal Cie, non sai dove andare, ti trovi in mezzo a una strada, e magari una settimana dopo ti ferma di nuovo la polizia e ti chiede di nuovo i documenti. E tutto comincia da capo. Di nuovo il Cie, di nuovo sei mesi buttati via. E una fabbrica che oltre a generare clandestinità e consenso elettorale, genera sofferenza e emarginazione.