02 April 2011

L'altalena senza bambini


Viaggio a Misratah, 31 marzo 2011

C'è un altalena senza bambini che dondola e cigola spinta dal vento davanti a quello che resta di una casa ridotta in macerie. E poi ci sono due bambini senza altalena e senza più voglia di giocare. Sono fratelli. Mohamed ha undici anni e Ali ne ha quattordici. Il missile è caduto nel cortile di casa mentre erano fuori a divertirsi. Quando sono arrivati al pronto soccorso, era già troppo tardi. A Mohamed hanno asportato l'occhio e amputato una mano. È sdraiato su un letto di ospedale, con la gamba rotta avvitata a un tutore di ferro e il resto del corpo coperto di bende e di cicatrici. Piange e dice che gli fa male. Ma il fratello più grande, Ali, non ha parole di conforto, perché anche lui è steso su un letto dello stesso ospedale. La loro infanzia è finita in un attimo. Il tempo dell'esplosione di un missile lanciato a caso su un quartiere della città con l'unico obiettivo di colpire i civili. Benvenuti a Misratah. La città ribelle della Tripolitania che da 40 giorni resiste eroicamente all'assedio delle milizie di Gheddafi e che da ormai tre settimane è completamente isolata dal resto del paese. Le linee telefoniche sono fuori uso, metà delle case è senza corrente elettrica e l'unica acqua rimasta a disposizione è quella dei pozzi, perché le condutture dell'acquedotto sono state chiuse dagli uomini di Gheddafi, che ormai circondano la città. L'unica via libera rimasta è quella del mare, ed è quella che abbiamo scelto per rompere l'altro isolamento: quello con la stampa internazionale. Perché finora nessun inviato dei grandi giornali è riuscito a spingersi fin qua.

Siamo sbarcati a Misratah mercoledì a mezzogiorno su un peschereccio libico salpato da Malta il giorno prima, con a bordo un carico di aiuti umanitari per la popolazione raccolti dalla comunità libica all'estero. Centocinquanta tonnellate di latte, pannolini, fagioli, riso, pasta, tonno e acqua minerale. Durante la notte, al largo, abbiamo incrociato le portaerei della Nato. Le stesse da dove il giorno prima erano partiti gli attacchi contro le tre navi della marina libica che bloccavano l'accesso al porto di Misratah a una nave turca carica di medicinali per l'ospedale della città, che ormai è rimasto a secco di farmaci e con centinaia di feriti gravi e gravissimi ancora da curare.

Ce lo confermano i dottori della clinica Hikma. È l'unico presidio medico rimasto in città. In principio era una clinica privata, ma il proprietario sta con la rivoluzione e dopo che le milizie di Gheddafi hanno bombardato l'ospedale, ha ceduto gratuitamente i cinquanta posti letto e le sale operatorie ai medici del policlinico. I pazienti sono stati evacuati di notte e portati da un ospedale all'altro a bordo delle ambulanze. Le stesse ambulanze sulle quali due settimane prima erano saliti invece i mercenari di Gheddafi sparando all'impazzata sulla gente in via Tarabulus, la strada che dalla circonvallazione attraversa il centro di Misratah e che ormai è completamente controllata dai militari del colonnello.

Lungo la strada, i cecchini sono appostati sui quattro palazzi più alti, da dove con fucili di precisione abbattono chiunque si sposti nel raggio di un paio di chilometri. Che si tratti di ragazzi armati o di civili non importa. L'obiettivo è colpire tutta la popolazione, perché tutta la popolazione ha detto no al regime. Come altro spiegare altrimenti la strage del 20 marzo, quando morirono 40 cittadini di Misratah sotto i colpi di mortaio sparati dalle milizie governative su una manifestazione pacifica di 4.000 persone, scese in piazza dopo che il dittatore annunciava al mondo il cessate il fuoco dopo i primi bombardamenti della Nato alle porte di Benghazi.

Da allora è una continua esclation di violenze contro i civili. Le giornate sono scandite dalle esplosioni dell'artiglieria pesante che rimbombano nei quartieri. Non cercate una logica perché non c'è. Non ci sono obiettivi militari. Almeno a giudicare dalle case distrutte dai missili che abbiamo visto a Qasr Ahmed, un quartiere periferico vicino al porto. E a differenza di Ijdabiya e Benghazi, qui la Nato ha le mani legate. Perché i carri armati, i mortai e i lanciamissili delle truppe di Gheddafi non sono fuori dalla città, in zone isolate facili bersaglio degli aerei degli alleati. Qui nessuna bomba può essere abbastanza intelligente da scovare i carri armati. Per il semplice fatto che sono in mezzo alla città e in mezzo alle case. In pieno centro su via Tarabulus e via Benghazi, nei quartieri residenziali del lungomare Jazira e Zerrag e addirittura dentro l'ospedale Karzas. E non appena sentono ronzare i motori degli aerei da guerra, in pochi secondi riescono a scomparire dalla vista, nascondendosi dietro le abitazioni o nel vecchio mercato delle erbe.

Con i cecchini il problema è lo stesso. I ribelli sanno esattamente da quali palazzi sparano. Ma non sanno se in quei palazzi tengano ancora ostaggi civili con sé. Anche contro di loro quindi un bombardamento aereo non può fare niente. E intanto la battaglia continua. Ed è una battaglia senza regole che in quaranta giorni si stima abbia già fatto almeno 200 vittime secondo le stime più prudenti dei medici della clinica Hikma.

Dieci giorni fa i miliziani del governo hanno ucciso quattro uomini, tutti civili, per impossessarsi del loro appartamento e usarlo come base per i cecchini. E due giorni fa hanno tagliato la gola a 17 ragazzi della rivoluzione, dopo averli fatti prigionieri, forse una vendetta per i cecchini a loro volta sgozzati nei giorni precedenti da un gruppo dei ragazzi armati della rivoluzione. Ciononostante il morale dei ragazzi di Misratah è ancora alto. Dopotutto la storia della guerra al colonialismo italiano dovrebbe avere insegnato a Gheddafi che questa è una città battagliera. Nelle sue strade più centrali, tra i palazzi della vecchia città coloniale, si combatte ora per ora una vera e propria guerriglia urbana.

Vedere il fronte su via Tarabulus è troppo pericoloso, ci sparerebbero i cecchini. Proviamo allora a raggiungere via Benghazi da una traversa. La strade tutto intorno sono tagliate da trincee di sabbia, file di bombe molotov pronte per l'uso, e decine di coperte sbruciacchiate stese sull'asfalto, che al momento opportuno vengono imbevute di benzina e incendiate, per bloccare il passaggio ai blindati di Gheddafi e sparargli con i vecchi kalashnikov e i pochi razzi rpg arrivati di contrabbando nelle ultime settimane da Benghazi. Tutto intorno le pareti delle case sono crivellate di colpi quando non completamente abbattute dai missili e dalle granate dei carri armati. Quando iniziamo a fare le prima foto ci sparano contro. Prima proiettili e poi un razzo che fortunatamente cade inesploso nella strada a fianco. Quanto basta per darsela a gambe levate e visitare, prima che tramonti il sole, le scuole trasformate in rifugi di solidarietà per le famiglie evacuate.

Sono centinaia di persone. Nelle aule al posto dei banchini ci sono i tappeti sul pavimento. Le scuole sono chiuse da 40 giorni. Masoud Masoudi è il padre di sei bambini. È qui con la moglie marocchina, Boushra. Gli hanno distrutto la casa e si sono salvati grazie a una macchina degli insorti che li ha portati qui in salvo. Mentre ci racconta, non ce la fa a trattenere le lacrime. Sua figlia lo guarda con uno sguardo grave, come se fosse la prima volta che scopre la debolezza del padre. Fanno i grandi i bambini di Misratah, ma hanno paura anche loro. Nella scuola accanto ce ne sono 130 di bambini. Sono tutti dell'orfanotrofio di via Tarabulus. Tre giorni fa sono finiti anche loro sotto le bombe. Per fortuna non c'è scappato il morto. Ma soltanto una grande paura, a cui fa da contraltare la grande solidarietà popolare messa in moto dalla città.

Nonostante l'assedio, in qualche modo il cibo si trova e si condivide. Lo vengono a distribuire i ragazzi della rivoluzione, nelle scuole degli sfollati e al porto, dove sono accampati più di seimila stranieri. Soprattutto egiziani, ma anche bangladeshi, nigerini, chadiani e sudanesi. Hanno paura di tornare in città tra le bombe. Hanno paura di essere scambiati per mercenari. Questa non è la loro guerra. Vogliono solo tornare in pace nel proprio paese. Basterebbero un paio di navi per evacuarli. Ma né i loro governi né i nostri sembrano molto interessati alla loro sorte.