Viaggio a Benghazi, lunedì 14 marzo 2011
Lui fino al mese scorso era un comune studente di informatica. All'inizio nemmeno tanto coinvolto nel movimento del 17 febbraio. Fin quando negli scontri di Ras Lanuf della settimana scorsa ha perso uno dei suoi migliori amici e ha deciso di arruolarsi. Dietro di lui, in fila indiana davanti all'ingresso del campo di addestramento, incontriamo i suoi compagni di corso dell'università, Mahmud Adrira e Younes, di 21 e 20 anni, e i loro amici Monsif e Jamal, che di anni ne hanno appena 17. Sono fieri e coraggiosi, anche se i più sinceri non nascondono la paura. Perché intanto dal fronte arrivano pessime notizie.
Oggi Zuwarah, alla frontiera con la Tunisia, è stata bombardata. Si parla al momento di almeno sette feriti e un morto, Sama 'Azzabi, conosciuto come un attivista della città. La notizia mi è arrivata per telefono da un attivista di Tripoli che mi ha chiamato dalle montagne di Nalut, una regione liberata a sud di Tripoli, dove si sono rifugiati molti libici scappati dalla capitale.
Mentre ancora non è chiaro il destino della cittadina di Brega e della sua preziosa raffineria. Domenica sera anche il generale Abdelfattah Younis, l'ex ministro dell'interno passato con gli insorti, aveva ammesso la disfatta, ma oggi si rincorrono voci di un contrattacco che avrebbe portato alla sua riconquista da parte dei ribelli. Ad ogni modo il fronte è destinato a spostarsi sempre più vicino alla città di Ijdabiya, che da Benghazi dista soltanto 150 km e che oggi ha ricevuto un primo avvertimento, con un bombardamento alle porte della città che fortunatamente non ha fatto nessuna vittima. L'importanza strategica di Ijdabiya deriva dal fatto che da lì partono tre importanti strade che se dovesse cadere la città, permetterebbero alle forze di Gheddafi di aggirare Benghazi da est verso Tobruk, e cingerla d'assedio. Mentre Benghazi si prepara alla guerra però, chi conosce meglio Gheddafi invita alla calma. Kamal Mussa è uno di loro.
Lui a Benghazi è il responsabile delle evacuazioni degli stranieri. Prima della rivoluzione faceva il commerciante, a Ginevra, in Svizzera. Ma di politica si occupa dai tempi dei movimenti studenteschi del 1977, quelli finiti con gli studenti di Benghazi impiccati in piazza per intendersi. Per la sua attività politica è già finito in carcere una volta, nel 1996. Ma oggi non ha più paura di parlare a volto scoperto e scommette sulla imminente fine del Colonnello. Secondo lui le milizie di Gheddafi sono sicuramente superiori sul terreno aperto, fondamentalmente perché dispongono dell'artiglieria pesante e dell'aviazione. Ma quelle stesse forze sono insufficienti - sostiene – per affrontare una guerriglia urbana in una città di 100.000 abitanti come Ijdabiya, e tantomeno in una città di un milione di abitanti come Benghazi.
A maggior ragione vista la determinazione e la passione dei giovani insorti. È un'intera generazione che per una volta ha voglia di vincere. Di piegare la storia al proprio volere. Con la stessa forza di quella ruspa che oggi ha sfondato il muro della vecchia base delle milizie di Gheddafi, la Katiba, nel cuore di Benghazi. Al tramonto, del vecchio muro di cinta non restavano che i tondini d'acciaio del cemento armato annodati tra le macerie venute giù. Sui blocchi lasciati in piedi all'ingresso della caserma, restano soltanto i poster con le foto dei martiri e gli slogan della rivoluzione scritti con lo spray. È una vera e propria profanazione dei luoghi della dittatura, che il regime cerca di censurare in tutti i modi.
Mms e sms non funzionano, a parte il messaggino pro governativo spedito oggi dalla compagnia Libyana a tutti i suoi clienti con su scritto “Viva la Libia unita e sicura”. I telefonini prendono male. E soprattutto internet è completamente fuori uso da settimane. Le uniche connessioni sono quelle satellitari degli alberghi della stampa a Benghazi. Ma la gente non ha accesso alla rete. Non può caricare i video su facebook e farli circolare da una città all'altra, per incoraggiarsi l'un l'altro e per organizzare in tempo reale le manifestazioni. L'unico mezzo di condivisione è il bluetooth dei telefonini, ma è troppo lento per una comunicazione di massa. Così a Tripoli sono in pochi a sapere cosa stia succedendo davvero a Benghazi e la paura continua a tenere in stallo la popolazione della capitale.
Gli amici di Tripoli confermano questa mia impressione. Sono tornati oggi in città dalle montagne di Nalut. Dicono che in città è stato schierato un dispositivo securitario impressionante. Ci sono agenti delle forze di sicurezza dappertutto. E dopo la strage di due settimane fa, la gente è semplicemente terrorizzata. Anche perché gli arresti degli attivisti stanno continuando. Anche se poi nel quartiere popolare di Abu Selim al contrario molti abitanti si sono schierati a favore di Gheddafi. Secondo i miei amici attivisti di Tripoli, si tratterebbe di ragazzi poveri, che sarebbero stati ben pagati per scandire gli slogan cari al colonnello. Ma allo stesso tempo non ci sarebbe da stupirsi del contrario. Ogni regime ha i suoi sostenitori, e anche quello di Gheddafi ne ha di sinceri. Sono pochi ma sono dappertutto, anche dove meno te lo aspetti. Ad esempio in mezzo ai ragazzi della rivoluzione di Benghazi.
Da quando sono arrivato ho sempre immaginato che nella piazza del tribunale di Benghazi ci fosse qualche spia. Ma non avrei mai pensato che parlasse italiano. Mohamed invece lo parla molto bene. E dire che ha vissuto in Italia soltanto due anni, a Avezzano , in Abruzzo, dove ha lavorato come cameriere al Gran Caffè. Oltre all'italiano parla anche inglese e ungherese. Ripete a memoria le battute del discorso di Gheddafi: “I manifestanti sono drogati, avanzi di galera e puttane. Non c'è più sicurezza nel paese, hanno ucciso troppa gente. Anche il giornalista di Al Jazeera, l'hanno ammazzato per creare il caos e attirare l'attenzione del mondo. Ma Gheddafi tornerà e riconquisterà la città. Perché è un uomo benedetto. E la rivoluzione è tutto un complotto delle potenze straniere che vogliono mettere le mani sul petrolio. È tutto un problema di colonialismo”.
Fortuna che non tutti i libici reduci dall'Italia la pensano allo stesso modo! Gioacchino è uno di loro. Come si chiami davvero non lo so, ma si fa chiamare così dagli amici italiani con cui parla con un marcato accento romanesco. A Benghazi vive con la moglie italiana e i tre bambini, Marco, Sara e Ahmed. Classe media, gira con una Chevrolet e ha un negozio di arredamento, che però è chiuso da un mese. Come metà delle attività commerciali della città d'altronde. I motivi sono due. Il primo è che gli affari in questo momento girano male. Anche perché ci sono pochi contanti in giro, i bancomat sono fuori uso, e la gente non spende soldi con la paura e l'incertezza che regnano. Il secondo è che non ci sono più i lavoratori. A Benghazi come in tutta la Libia, un abitante su quattro è un emigrato. Qui la più grande comunità è quella degli egiziani. Poi ci sono i tunisini, i sudanesi, i chadiani, gli indiani, i cinesi. C'erano anzi, perché se ne sono andati a migliaia. Centomila hanno raggiunto il varco di frontiera di Sallum in Egitto. Diecimila cinesi sono stati evacuati dal porto sui traghetti greci diretti a Creta, altri sono partiti sulle navi dirette a Alexandria d'Egitto. E il risultato è che non ci sono più muratori, operai, camerieri, artigiani, baristi. Senza di loro l'economia è ferma e la situazione è destinata a peggiorare visto che ogni giorno ci sono nuove partenze.
Anche oggi se ne sono andati in Egitto un centinaio di chadiani, a bordo di due autobus partiti dal campo della Mezza luna crescente rossa libica, allestito nei dormitori di un cantiere edile di una compagnia indiana davanti allo stadio di Benghazi. Qui vivono da un mese alcune centinaia di africani. Sono i neri fuggiti dai quartieri di Benghazi, per paura di essere scambiati per i miliziani delle legioni africane di Gheddafi e uccisi per vendetta dai ragazzi della rivoluzione. Per un certo periodo sono infatti girate voci di africani linciati dalla folla durante la caccia ai miliziani stranieri.
Anche Marih ne ha sentito parlare, ma non sa se sia vero perché non ha visto niente e non conosce nessuno che abbia fatto quella fine. Lui è eritreo e vive a Benghazi da quattro anni. Ma a differenza degli altri, ha preferito restare a casa sua anziché trasferirsi al campo della crescente rossa. Vive con la moglie e il bambino piccolo e a spostarsi in città non ha grossi problemi. Ormai parla bene l'arabo e sa muoversi a Benghazi. La traversata verso l'Italia l'ha tentata tre volte, nel 2007, 2008 e 2009, ma l'hanno sempre riportato indietro i libici. Qui al campo viene una volta al giorno a vendere le bevande per alzare qualche soldo. Nei prossimi giorni spera di essere evacuato in Egitto.
Magari potrà approfittare di un passaggio dai camionisti che continuano a arrivare con i carichi di solidarietà. L'ultimo autoarticolato è arrivato stasera alle dieci. Un intero rimorchio carico di riso, pasta, latte, olio e coperte. Ventisettemila dollari di valore, messi a disposizione da sette anonimi benefattore del salotto buono del Cairo, che hanno finanziato l'intera operazione. Il cibo sarà smistato tra le famiglie di Benghazi, Baida, Derna e Tobruk. Perché si sentano meno sole nella loro lotta per la libertà. Dopotutto è questo l'ingrediente fondamentale di ogni rivoluzione popolare. Non le armi affilate, ma la solidarietà tra i popoli e le genti. A tal proposito, cosa fanno gli italiani a parte respingere, pattugliare, identificare e rimpatriare?