16 March 2011

Cosa state aspettando?


Viaggio a Benghazi, 15 marzo 2011

I guanti di lattice di Salim sono sporchi di sangue. Non riesco a dimenticare la scena. Uno a uno sceglie i brandelli di carne tra i vetri in frantumi dell'auto, una Daewoo Nubira. Sono il cervello di Wahid Elhasi, spappolato dalla scheggia di una delle centinaia di bombe sganciate oggi dall'esercito di Gheddafi sulla città di Ijdabiya. I ragazzi delle milizie non ci hanno lasciato passare per fotografare i crateri delle bombe sganciate dall'aviazione del regime. E adesso capiamo perché. I bombardamenti sono incessanti. Distinguiamo nitidamente un aereo, gira sopra le nostre teste, a alta quota, indisturbato, e a ogni passaggio sopra la periferia occidentale della città, sgancia un carico di bombe. Il frastuono delle esplosioni si alterna con i botti della contraerea, che però non riesce mai a colpire il bersaglio. A ogni bombardamento, le ambulanze dell'ospedale sgommano verso il fronte, che ormai è alla periferia della città, noncuranti del pericolo.

Salim è uno dei volontari. Viene da Derna e si sposta con il fronte. Era a Ras Lanuf, poi ha ripiegato a Brega e adesso è qui a Ijdabiya ad assistere i feriti. E resterà fino alla fine o fino a quando gli daranno ordine di evacuare. “Spero di morire come lui, moriremo tutti ma Gheddafi non entrerà”, dice indicando tre volontari che spingono a rilento una barella coperta da un drappo nero verso la camera mortuaria dell'ospedale. É il cadavere di Walid. L'amico che guidava l'automobile e che è uscito indenne dall'incidente, porta le mani al volto per asciugarsi le lacrime. Lui e Walid non erano nemmeno al fronte, stavano soltanto percorrendo la Brega-Ijdabiya per tornare a Benghazi. Walid aveva 25 anni e anziché godersi la vita, è finito in una cella frigorifero.

La camera mortuaria puzza di morte. Per terra c'è una pozzanghera di sangue. Gocciola da una cella aperta a metà. Gli infermieri hanno tirato fuori uno degli otto cadaveri degli scontri di questi giorni. E chiedono ai giornalisti se lo conoscono. Dal volto si direbbe un uomo sulla sessantina, capelli grigi e pizzetto. Dicono che abbia la pelle troppo chiara per essere libico, potrebbe essere un giornalista ammazzato al fronte. È morto con un colpo alla testa. Ma la cosa misteriosa è che l'hanno ritrovato nudo abbandonato in mezzo alla strada, due giorni fa.

Alle 12.30 inizia il sesto bombardamento della giornata. Vanno avanti dalle quattro del mattino. Il bambino che gira da solo da stamattina all'ingresso del pronto soccorso, mi chiede se ci colpiranno. Gli dico di stare tranquillo, che le bombe sono lontane dall'ospedale. Ma so che è una mezza bugia, perché sono soltanto a tre chilometri, e colpiscono il fronte ma anche le prime case dei quartieri periferici di Bab Gharbia, lungo la strada che viene da Tripoli. E infatti nel giro di pochi minuti arrivano in ospedale due macchine e un'ambulanza. Dalle auto scendono due uomini con in braccio due bambini. Uno di quattro anni e l'altro di sette. Lo sguardo terrorizzato e le braccia strette al collo dei loro papà. Dall'ambulanza invece scaricano di corsa una barella con un ragazzo con i vestiti insanguinati e l'intestino fuori dalla pancia. La bomba è caduta a pochi metri dalla casa, e le schegge li hanno feriti. Per fortuna per i due bambini non è niente di grave. Il ragazzo invece è stato operato d'urgenza e forse si salverà, ma dovranno trasferirlo prima possibile a Benghazi, possibilmente prima che le milizie di Gheddafi riprendano il controllo di Ijdabiya. E si vendichino di chi ha osato opporsi alla dittatura.

Il colonnello l'ha ripetuto più volte nei suoi discorsi: “Zanqa zanqa, dar dar”, strada per strada, casa per casa. Sarà caccia all'uomo, finché non saranno uccisi tutti gli oppositori. Una promessa già in parte mantenuta a Brega e Ras Lanuf, le prime due città espugnate nell'est dalle truppe fedeli al regime. Secondo Muftah, a Brega due giorni fa i miliziani avrebbero fermato l'ambulanza su cui si trovava Brahim Hiblu, uno ragazzo delle brigate dei rivoluzionari ferito alla gamba, e l'avrebbero ucciso sul posto con un colpo alla testa. Lo stesso giorno, sempre a Brega sarebbero andati a prendere uno dei leader della rivolta, Gibril Bujgama, a casa, per poi sparargli in piazza. Le notizie non sono ancora confermate, ma per capire di cosa stiamo parlando basterebbe soltanto ricordare che durante l'assedio a Ras Lanuf della settimana scorsa, le forze armate di Gheddafi hanno bombardato anche l'ospedale e la moschea. E hanno colpito un'ambulanza con i razzi dell'antiaerea.

Ahmed mi mostra la foto sul cellulare di un ragazzo colpito alla testa in un bombardamento a Ras Lanuf. Si riconosce soltanto la bocca. Ahmed nel cellulare ha altre immagini. Quelle dei due uomini fatti letteralmente a pezzi dall'antiaerea durante gli scontri a Benghazi del 20 aprile. E un video di un bambino di sei anni ferito dalle bombe a Ras Lanuf e morto il giorno dopo all'ospedale Aljala di Benghazi. Ormai da una settimana Ahmed non vede altro. Lui ha 22 anni ed è uno studente fuorisede di Khums. Al fronte è venuto con un gruppo di amici del corso di medicina dell'università Gar Younis di Benghazi. Ne approfitto per chiedergli se avendo lavorato negli ospedali del fronte sappia dirmi il numero dei morti. Mi risponde che in realtà non lo sa nessuno. Le ambulanze non si sono mai spinte fino alla prima linea di fuoco, per motivi di sicurezza. E più di un ferito con cui lui ha avuto modo di parlare, gli ha riferito di compagni abbandonati sul campo moribondi.

Quando suona di nuovo la sirena dell'ambulanza, è un ragazzo della brigata dei volontari della rivoluzione a arrivare. Ha la kefya al collo e lo sguardo spento. Lo portano di corsa in sala operatoria, ma è già troppo tardi. È morto dissanguato. A darmi la notizia è il chirurgo Abdelhelim, un uomo sulla sessantina. Nell'angolo della sala operatoria, un'infermiera piange. “Che cosa stanno aspettando le Nazioni Unite?” chiede il vecchio chirurgo alla stampa. “Che cosa state aspettando?"

Il professor Mahmud Fakri rincara la dose, poco prima che decidiamo di tagliare la corda: “Non vogliamo le vostre truppe, sarebbe un'invasione. Abbiamo scelto la rivolta e siamo pronti a pagarne il prezzo. Ma fermate i suoi aerei se non volete che ci massacri. E scendete nelle vostre piazze per supportare la nostra battaglia”. Quando ce ne andiamo, l'autostrada tra Ijdabiyah e Benghazi è trafficatissima. Scappano dal fronte, sono centinaia di automobili. Soprattutto famiglie, donne e bambini. Rimandano la pace di qualche chilometro, cercando rifugio nella capitale della Cirenaica da amici e parenti.