05 July 2010

L'Italia ripensi al colonialismo. La lettera di Dagmawi Yimer per gli eritrei

Dagmawi YimerROMA – Studiava giurisprudenza all’università di Addis Abeba, in Etiopia. E fu costretto a fuggire dopo la dura stagione di repressione seguita alle proteste degli studenti. Nell’inverno 2005 ha attraversato il deserto tra Sudan e Libia e dalla Libia ha raggiunto l’Italia via mare. Oggi vive a Roma come rifugiato politico, lavora come regista ed è un nuovo cittadino del nostro paese. Si chiama Dagmawi Yimer, e molti lo ricorderanno per il documentario “Come un uomo sulla terra”, il film che svelò i retroscena dell’accordo Italia-Libia, di cui curò la regia insieme a Andrea Segre e Riccardo Biadene. Avendo vissuto in prima persona l’esperienza delle carceri libiche, gli abbiamo chiesto di commentare i fatti di Brak. Ecco la sua lettera.


«Mi appello al governo italiano e a quello libico, in nome di tutti gli eritrei, i somali e gli etiopi che in questo momento stanno soffrendo in Libia. So benissimo cosa vuol dire essere nelle mani della polizia libica. Uso le ultime parole che mi rimangono, perché anche le parole finiscono quando non avviene nessun cambiamento. Mi sento impotente davanti a questi governi crudeli che non sanno cosa vuol dire essere privati della libertà non per una singola giornata, ma per due, tre o quattro anni…

Io l’ho vissuto sulla mia pelle: i maltrattamenti nelle carceri libiche, gli schiaffi, le bastonate, gli insulti dei poliziotti libici. Anche io sono stato deportato dentro un container, durante un giorno e mezzo di viaggio, verso il carcere di Kufrah, con altre 110 persone, ammucchiati come sardine. Con noi c’erano anche otto donne e un bambino eritreo di quattro anni. Si chiamava Adam. Chissà che fine ha fatto quel bambino, chissà se è riuscito a salvarsi dalla trappola italo libica, chissà se sua mamma non è stata violentata dai poliziotti libici davanti a lui… Se è sopravvissuto, ormai avrà otto anni, e comincerà a capire piano piano che razza di mondo è riservato per lui e tanti altri come lui.

Perché tutta questa violenza, questo odio contro di noi? È vero, è giusto che per garantire il ben essere di uno, l’altro debba soffrire, debba pagare il prezzo?

Veniamo da paesi dove l’Italia non ha ancora fatto i conti con i suoi massacri durante il periodo coloniale e dove ancora oggi, dopo mezzo secolo, usa i libici per combattere gli eritrei, come all’epoca delle colonie usava gli eritrei per combattere i libici. È vero che la libertà di questi miei fratelli minaccia il benessere dei cittadini europei? È vero quindi che un accordo per il gas e il petrolio vale di più delle vite umane e della loro libertà naturale? Perché l’Italia, da paese civile, non ha previsto nell’accordo con la Libia il minimo rispetto dei diritti “inviolabili” degli esseri umani invece di chiudere un occhio e vantarsi di aver bloccato l’emigrazione via mare?

Mi ricorda la stessa ipocrisia con cui Mussolini fece credere al suo popolo che l’Italia avesse stravinto sugli abissini senza dire nulla sui mezzi che avevano portato a quelle vittorie, ovvero tonnellate e tonnellate di gas utilizzate senza pietà per sterminare i civili. Il tono del governo è lo stesso, oggi come allora, ed è la stessa la reazione della gente.

Se ripenso a Adam, il bambino di quattro anni che era con noi sul container, mi chiedo: quale era la sua colpa? Mi ricordo che ogni tanto l’autista del container (Iveco) si fermava per mangiare o per i suoi bisogni, mentre 110 persone urlavano per il caldo infernale del Sahara, per la mancanza d’aria, che a malapena entrava mentre il camion era in movimento. Il piccolo Adam lo tenevamo vicino al buco da dove entrava un po’ d’aria da respirare… mentre chi si trovava in fondo al container si agitava disperatamente, urlava, piangeva. È possibile vedere ancora deportazioni di massa dentro i container?

Quando ci hanno arrestato poi, i libici non ci hanno chiesto perché fossimo in Libia e cosa volessimo. Eravamo semplicemente la preda dei poliziotti, eravamo donne da stuprare e uomini da bastonare. Pochi giorni fa ho incontrato una persona, in una situazione che non voglio descrivere. Questa persona lavora a Tripoli e mi ha detto che tra gli ultimi respinti in mare verso la Libia c’era una ragazza di 22 anni che è stata violentata dai poliziotti libici appena arrestata. Alla fine è riuscita a evadere, corrompendo una guardia, ma ora è incinta e non vuole far nascere un figliastro di cui non conosce nemmeno il padre…

Perché non si reagisce prima che diventi troppo tardi? Perché tutto questa indifferenza verso la sofferenza degli altri, oltretutto provocata dall’Italia stessa? Dov’è la “civiltà” di un paese che finanzia un soggetto terzo per eseguire il lavoro sporco e lavarsene le mani come Pilato? Quando smetterà l’Italia di essere il “mandante” di queste violenze?

Guarda caso poi, dopo la “deportazione” i poliziotti libici ci vendettero per 30 dinari a testa (circa 18 euro) agli intermediari che poi ci riportarono sulla costa.

Anche noi abbiamo dei genitori, che si ricordano sempre di noi, e che piangono assieme pensando alle sofferenze che viviamo, alle botte e agli insulti che prendiamo. Ma anche noi avremo giustizia per tutto quello che stiamo subendo. Oggi paghiamo il prezzo che i vostri governi hanno deciso di pagare per far godere al “popolo” la sicurezza energetica. Ma le lacrime e il sangue versato non saranno dimenticati.

Uso le ultime parole che mi sono rimaste, l’ultima energia dopo due anni di battaglia su questo tema ma spero di poterlo avere ancora. Ho girato l’Italia, partecipando a centinaia di incontri e di proiezioni (di “Come un uomo sulla terra”, ndr.) e ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto vedere la loro indignazione e la loro vergogna di essere rappresentati da questi governi ipocriti.

Ma mi chiedo: se io che grido da qui non ho ascolto, figuriamoci i miei fratelli che stanno nella bocca del lupo. Ma continuo a gridare lo stesso e dico: Italia tu che sei civile e potente guarda queste persone e ricordati cosa hai fatto ai loro nonni.»