Fino a metà agosto, quando iniziò a circolare un’altra versione dei fatti. Nella comunità degli eritrei in Libia c’era chi diceva che il gommone avesse lanciato un sos e che metà dei passeggeri fossero morti, altri invece dicevano che il gommone era stato respinto in Libia dagli italiani. Ogni verifica però era impossibile perché il telefono satellitare era scarico. In questo rincorrersi di voci e ricostruzioni, la notizia della strage il 20 agosto ha seminato il panico tra la comunità eritrea. “Gli stessi intermediari sono terrorizzati”. Nessuno riesce a farsi un’idea di come il gommone possa essere stato abbandonato in mezzo al mare per tre settimane. Nemmeno a Tripoli esiste una lista delle vittime. Le partenze sono tenute segrete, per motivi di sicurezza. A volte chi parte non informa nemmeno gli amici fidati e i parenti. E i dallala non vogliono che in giro si facciano troppe domande sui loro affari. Inoltre il periodo non è dei migliori. Il ramadan è appena iniziato e i poliziotti approfittano delle retate per arrotondare lo stipendio. “In Libia i rifugiati eritrei sono usati come moneta di scambio. Ci valutano in dollari americani – dice Selamawi -. I poliziotti cercano sempre soldi. Ti sequestrano quello che hai quando ti arrestano, e poi si fanno pagare per lasciarti andare. Il prezzo di un’evasione va dai 500 ai 900 dollari”.
Eppure l’Italia sostiene che la Libia sia in grado di accogliere i rifugiati del Corno d’Africa che si imbarcano dalle sue coste. Forse il premier Berlusconi dovrebbe approfittare della visita a Tripoli il prossimo 30 agosto per incontrare i rifugiati eritrei detenuti dal 2006 a Misratah. Oppure i rifugiati somali detenuti a Benghazi, sei dei quali sono stati recentemente uccisi dalla polizia durante una sommossa. I rifugiati detenuti a Benghazi non sapevano niente della strage in mare dei 73 eritrei. Li ho raggiunti telefonicamente. “Che tragedia!” è il loro commento a caldo. Dello sbarco dei 57 eritrei ieri pomeriggio invece dicono “Finalmente una buona notizia!”. Già perché il sogno di tutti è andar via. E ottenere il riconoscimento dell’asilo politico per rifarsi una vita, anche a costo di attraversare nel Mediterraneo sfidando la morte. Selamawi ne è certo: “Nessuno sa esattamente quando, ma tutti qui aspettano il giorno in cui tutte queste sofferenze avranno fine e tornerà la libertà!"