29 September 2008

E Dag svelò il lager di Kufra

Tratto da L'Unità del 29 settembre 2008
di Giovanni Maria Bellu

Il nome di Kufra, oasi libica al confine con l'Egitto, nel 1931 divenne familiare agli italiani. «La battaglia di Kufra», cantata dai giornali del regime fascista, fu uno dei momenti cruciali della feroce campagna del generale Graziani contro la resistenza africana. Poi Kufra uscì dalle cronache e dalla memoria. È ricomparsa in questi ultimi anni, prima nel passaparola degli immigrati giunti a Lampedusa, poi negli atti del Parlamento europeo, quindi in quelli del governo italiano. Ora in un documentario che difficilmente vedremo in tv. Kufra, infatti, è la nostra vergogna. A Kufra esiste, costruito coi nostri soldi, un «centro di detenzione» che funziona come un lager. Un luogo di tortura dove i reclusi vengono venduti dalla polizia libica ai trafficanti. Con una tale sistematicità che esiste addirittura un tariffario.

I più costosi sono gli eritrei, considerati dei benestanti. I somali, invece, sono troppo poveri e non li vuole nessuno. Dag è stato a Kufra, come tanti altri immigrati sbarcati sulle nostre coste. E, benché questo moderno lager non preveda il marchio di un numero sulla pelle dei suoi ospiti, è possibile riconoscere chi vi è transitato. È qualcosa di trattenuto in fondo allo sguardo, come se il bisogno di oblio e quello di riscatto fossero impegnati in un perenne combattimento. Dag - che si chiama Dagmawi Yimer ed è nato trent’anni fa ad Addis Abeba - ha infatti lo sguardo di Kufra. Ma è stato capace di trasferirlo nell’obiettivo di una telecamera e - col regista Andrea Segre e la collaborazione di Riccardo Biadene - ha realizzato il documentario che difficilmente vedremo. Peccato perché chi ha potuto farlo ne è rimasto entusiasta. Proprio ieri «Come un uomo sulla terra», è questo il titolo, ha conquistato tutti i premi del "Salina DocFest".

Kufra non è che una delle tappe del viaggio che decine di migliaia di migranti partiti dal Corno D’Africa e dagli Stati subsahariani compiono per raggiungere la costa libica e quindi imbarcarsi per l’Europa e approdare a volte a Lampedusa, a volte a Malta, a volte da nessun parte e così andare ad allungare la lista delle vittime del Mediterraneo. Diecimila, secondo le stime più prudenti.

Dag quel viaggio l’ha compiuto ed ha avuto la fortuna di concluderlo. È sbarcato a Lampedusa il 30 luglio del 2006, gli sono state prese le impronte digitali, ha trascorso cinque mesi in un centro di accoglienza a Trapani. Ha ottenuto la "protezione umanitaria" (una forma attenuata di asilo politico) e si è trasferito a Roma dove, per imparare l’italiano, si è iscritto a un corso organizzato dalla Onlus "Asinitas", fondata da Marco Carsetti. E’ stato fortunato ancora una volta perché oltre all’italiano ha imparato anche la lingua del cinema in un "laboratorio di autoformazione audiovisiva per migranti". E’ stato così che, dopo l’incontro con Andrea Segre, è nata l’idea del documentario.

Chi, senza ancora averlo visto, sente Dag raccontare il suo viaggio, resta travolto dalla quantità di momenti drammatici e si forma un’idea precisa di quanto per un migrante sia facile morire. Se l’ascoltatore è un cittadino europeo che di mestiere racconta storie, a un certo punto prova una paradossale invidia per questa tragica abbondanza di esperienze. E quando, all’inizio del documentario, compare l’immagine di Dag che spiega perché, dopo aver partecipato a una manifestazione repressa sanguinosamente dalla polizia, decise di andarsene da Addis Abeba, ti disponi ad ascoltare il seguito della sua incredibile avventura. Ma passano pochi minuti e resti sorpreso.

Dag non parla più di sé. Si fa da parte. A volte scompare del tutto. Poi di nuovo riappare. Ma non per raccontare la sua storia. Solo per trasferire la sua capacità di elaborare il dolore ad altri che, come lui, hanno lo sguardo di Kufra. Cioè hanno compiuto quello stesso viaggio e hanno raggiunto l’Italia. Ma ancora non hanno trovato le parole del riscatto.

Kufra in effetti è orribile da pensare, figuriamoci averla vista. Ed è inevitabile distogliere lo sguardo davanti all’orrore. Dag stesso, quando gli abbiamo chiesto di descriverla, è stato approssimativo. Ha detto che la sua cella, che divideva con altre sessanta persone, era un po’ più grande della stanza dove ci trovavamo in quel momento. Una trentina di metri quadri, forse. Ha descritto un luogo lurido dove perdi la tua dignità di uomo. «Ho sofferto più a Kufra che nel mio paese. Quando sei là ti penti di essere partito perché dove ti trovavi non poteva capitarti nulla di peggio».

Le celle di Kufra sono cinque. Tre sono riservate agli uomini. Due alle donne che, sistematicamente, vengono stuprate. Quando ancora una volta Dag si fa da parte, compare il viso di Fikirte, una ragazza eritrea che è stata a Kufra e, infatti, ne conserva il caratteristico sguardo. Basterebbe quello sguardo, senza necessità di parole, per dirti l’intera storia e per spiegare il silenzio. Ma succede una specie di miracolo che ti fa capire esattamente, per la prima volta, perché il grande reporter Ryszard Kapuscinsky suggeriva ai colleghi di stabilire un rapporto di empatia con gli altri - col "prossimo tuo" - che lui considerava la principale tra tutte le fonti. Dag, grazie al suo essere nello stesso tempo testimone e narratore, si trasforma in uno straordinario reporter e fa uno scoop.

Fikirte gli racconta che verso la fine del 2005 nel centro di detenzione di Kufra comparvero delle "macchine nuove" che avevano "la bandiera italiana". Macchine diplomatiche, dunque. E che questi italiani ben vestiti entrarono nel centro e fecero un po’ di domande. Per esempio, chiesero a un detenuto eritreo che parlava la loro lingua se riceveva una paga e se il cibo era buono. Quello rispose di sì. Quindi, evidentemente appagati dalle rassicurazioni, i nostri connazionali se ne andarono via.

In definitiva, girarono la testa dall’altra parte. Proprio come, in un’altra sequenza, il ministro Franco Frattini. Dag, con la tecnica di Michael Moore, lo avvicina a conclusione della conferenza stampa nella quale Frattini ha appena annunciato che lascerà il posto di commissario europeo per candidarsi alle elezioni politiche e gli domanda perché mai l’Italia dia soldi a un paese come la Libia, a un paese che i soldi li usa in quel modo. Frattini risponde che i finanziamenti servono per promuovere delle condizioni migliori di rimpatrio e aggiunge di non aver mai condiviso la decisione di aprire centri di detenzione in paesi extraeuropei. Decisione che, aggiunge, è stata assunta dagli Stati membri. Dunque, conclude, bisogna chiedere a loro. Pochi secondi dopo un cartello ricorda che l’8 maggio del 2008 Frattini è diventato ministro degli Esteri del governo dell’Italia, uno degli “Stati membri”, appunto. E che quel governo ha stipulato, con l’amico Gheddafi, un accordo da cinque miliardi di euro. Un accordo che ci darà “più petrolio e meno clandestini”. Adesso sappiamo come.

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