24 April 2009

Torturati in Tunisia, l'Italia nega l'asilo agli esuli di Redeyef


MONFALCONE, 24 aprile 2009 – Hanno chiesto asilo politico ma l'Italia ha detto di no. E adesso rischiano di essere rimpatriati e arrestati per reati politici. Sono una trentina di esuli tunisini originari della città di Redeyef, centro nevralgico del ricco bacino minerario di fosfati del sud ovest del paese, balzato alla cronaca per le dure proteste sindacali esplose nel corso del 2008 e per la violenta repressione disposta dal presidente Ben Ali. Una repressione culminata lo scorso 4 febbraio 2009 con la condanna in secondo grado di 33 imputati - tra sindacalisti, giornalisti e singoli manifestanti – a pene che vanno dai due agli otto anni di carcere, per reati che vanno dalla “associazione a delinquere” alla “diffusione di documenti suscettibili di turbare l'ordine pubblico”. Quei “documenti” sono le immagini video girate dal fotografo Mahmoud Raddadi, condannato a due anni, e distribuite sul canale satellitare Al Hiwar (tramite la piattaforma italiana Arcoiris) da Fahem Boukaddous, condannato in contumacia a sei anni di carcere. Sono le immagini dei comizi del sindacalista Adnan Hajji, delle gremite manifestazioni di piazza e delle violenze della polizia. Si possono scaricare da Youtube e Dailymotion. A patto di non essere in Tunisia. Già, perché lì il Governo ha censurato l'accesso ai due siti. Nessuno deve sapere dei tre manifestanti uccisi dalla polizia e degli altri 27 finiti in ospedale con ferite da arma da fuoco, e neppure dei sindacalisti e dei giornalisti arrestati e torturati.

I trenta esuli hanno lasciato Redeyef intorno a metà dicembre. Vivevano nascosti sulle montagne quando l'11 dicembre 2008 il tribunale di Gafsa pronunciò le condanne in primo grado da uno a 11 anni di carcere per i 33 imputati. Rivolgersi alle autorità per avere un passaporto sarebbe stato impossibile. Lampedusa era l'unica via di fuga. Trovare i contatti con i passeur fu facile, quella è una regione di forte emigrazione. A Lampedusa sono arrivati in diversi sbarchi, tra dicembre e gennaio. E a Lampedusa hanno chiesto asilo politico, per poi essere trasferiti il 2 marzo al Centro di identificazione e espulsione di Gradisca. Poco dopo, la Commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato di Gorizia ha iniziato a intervistarli e quindi, a rilasciare i dinieghi. Tra i motivi addotti, la mancanza di prove di quanto dichiarato e un inquietante sospetto: “le dichiarazioni in merito agli eventi riportati sono talmente dettagliate da poter essere tranquillamente mandate a memoria tramite facile accesso alle pubbliche banche dati presenti sulla rete internet.”


A. (le iniziali sono scelte casualmente, per mantenere l'anonimato) avrebbe quindi imparato su internet come si pesta un oppositore... “Entravano in 4 – racconta - e picchiavano con quello che capitava, con le cinture e oggetti vari. Mi hanno danneggiato la mascella. Ho diverse cicatrici sul viso. Perdo ancora sangue dal naso a causa di queste ferite”. La tortura aumenta ad ogni trasferimento. Dice B: “A Gafsa mi hanno picchiato duramente. Mi hanno denudato, legato, e appeso a testa in giù. Mi hanno legato le mani dietro la schiena e picchiavano come volevano loro. Mi torturavano e poi mi gettavano addosso dell'acqua. Non ti facevano dormire. Cercavo di dormire sulla sedia, quando cambiavano il turno, ma quelli nuovi arrivavano ed era il loro turno di picchiare. Ti svegliavano e cominciavano a picchiarti”. Al commissariato di Gafsa c'è una stanza dedicata alla tortura. C. lo sa bene. “Mi hanno spogliato tutto nudo, mi hanno picchiato con un tubo di plastica, con le mani, con i piedi. Mi hanno insultato, parlavano male di mia madre, delle mie sorelle”. Le umiliazioni sessuali sono continue. Nelle parole e nei fatti. D. non riesce a liberarsi di quell'incubo: “Mi vergogno di raccontare cosa mi hanno fatto... Mi hanno picchiato e sodomizzato con i manganelli”. Gli ufficiali della polizia tunisina sono addestrati alla tortura. E. ha sperimentato la posizione del pollo allo spiedo: “Mi hanno picchiato, torturato. Mi hanno messo tutto nudo, mi hanno messo un bastone sotto il ginocchio, legandomi mani e piedi. Hanno messo il bastone tra un tavolo e l'altro e mi facevano girare come un pollo allo spiedo. Tutto questo è andato avanti per 4 o 5 ore”. Il motivo degli arresti, che all'epoca portarono in carcere più di un centinaio di persone, spesso era il semplice fatto di aver partecipato alle proteste e agli scioperi. Molti raccontano di essere stati presi a casa, nel cuore della notte, e quindi torturati fino a fargli firmare delle false confessioni. Come spiega E: “mi hanno portato dei fogli che dovevo firmare. Ho detto che volevo leggerli, ma mi hanno picchiato. Allora ho firmato.” La pratica della tortura è stata denunciata anche dalle testimonianze rese dagli imputati del maxi processo di Gafsa, lo scorso 4 febbraio: la posizione del pollo allo spiedo, quella della sedia, il getto dell'acqua, la penetrazione anale con oggetti e manganelli, la denudazione in presenza di familiari.

Nonostante i richiedenti asilo abbiano fornito alla Commissione queste dichiarazioni, le autorità italiane hanno sostenuto che in caso di rimpatrio “l'istante non sarebbe sottoposto a trattamenti disumani o degradanti.” Peccato, perché si sono sbagliati. Il 30 marzo 2009, sebbene non fossero ancora scaduti i termini per presentare ricorso, tre degli esuli sono stati rimpatriati. Secondo le informazioni in nostro possesso, due di loro sarebbero stati arrestati all'aeroporto di Tunisi e si troverebbero ancora in carcere. Il rimpatrio è avvenuto senza nemmeno informare il Tribunale di Trieste, presso cui quello stesso giorno era stato depositato il ricorso da parte dell'avvocato Giovanni Iacono. Il 2 aprile, il giudice Gloria Carlesso ha decretato la sospensione dell'espulsione dei tre, purtroppo già avvenuta. In particolare, il giudice ha riconosciuto “che ricorrono gravi motivi desumibili dalle ragioni poste a base della stessa impugnazione”. Una decisione in linea con il recente rapporto del Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, che ha richiamato l'Italia per aver rimpatriato dei cittadini tunisini nonostante l'avviso contrario della Corte europea. In ballo c'è il diritto ad un effettivo ricorso e il divieto di espulsione in un Paese dove si rischiano trattamenti degradanti. Lo dice la Carta europea dei diritti fondamentali. Ma intanto il tempo stringe.

Il 26 aprile scade il termine del trattenimento dei trenta esuli. C'è il rischio reale di un loro rimpatrio prima di quella data, dato che sul loro destino pende un ordine di respingimento notificato al loro arrivo a Lampedusa. E se anche dovessero tornare in libertà, il rischio permane. Senza documenti infatti, rischiano di essere fermati in qualsiasi momento e rimpatriati. “Preferisco andare in qualsiasi altro paese - dice F.- ma non in Tunisia. Mi aspetta il carcere. Vedono che sono di Redeyef e che sono venuto in Italia. Mi hanno già fermato in precedenza, e mi arrestano di nuovo”.


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