29 July 2008

Al cpt di Gradisca un palestinese in sciopero della fame

GRADISCA, 29 luglio 2008 – Gli immigrati detenuti nel centro di identificazione e espulsione (Cie) di Gradisca, in provincia di Gorizia sono 63, poco meno della metà dei 136 posti disponibili. Dormono in camere da otto letti ciascuna. I materassi sono di gommapiuma, l'aria condizionata non c'è e nei bagni non ci sono specchi. Le stanze si affacciano su un corridoio a ferro di cavallo che gira sui tre lati di un cortile grigio di cemento, chiuso da una grande gabbia di ferro. Scorrendo il registro delle presenze, spiccano le nazionalità tunisina, marocchina, albanese, ma anche algerina, senegalese e macedone. Alcuni sono arrivati qui dopo aver scontato una pena in carcere, gli altri dopo un controllo dei documenti. C'è chi vive in Italia da dieci anni e ha perso il permesso di soggiorno dopo aver perso il lavoro. E c'è chi il permesso non l'ha mai avuto. Uno di loro è un ragazzo palestinese. Viene da Gaza e vive in Italia dal 2003. Nei centri di identificazione e espulsione è già stato detenuto altre quattro volte, a Modena. Per un totale di otto mesi. E a Modena lo hanno fermato anche l'ultima volta. Lavorava in nero per un'agenzia di traslochi. Non ha mai chiesto asilo. Non sa nemmeno come si possa fare. A Gradisca è arrivato da sette giorni. E da sette giorni è in sciopero della fame. Rifiuta il cibo. Chiede la libertà. Per quattro giorni anche Qasseri, un ragazzo tunisino, ha scioperato. Ma poi ha interrotto la protesta.

Tra i detenuti ci sono molti lavoratori. Uno di loro si chiama Djibi e viene dal Senegal. Lavora come scultore. È detenuto al Cie da quaranta giorni. Sfoglia un album fotografico e mi mostra un’aquila scolpita in bassorilievo nel legno. Con gli artigli stringe un drappo con su scritto “Polizia di Stato”. Gliela aveva commissionata la Questura di Salerno, per la festa della Polizia, nel maggio scorso. Due mesi dopo l'hanno arrestato durante una retata nel condominio dove viveva, a Bolzano. Insieme a lui hanno portato via sette persone. I documenti li ha persi insieme al lavoro. Era in Italia dal 2005. Lavorava con contratti interinali, per l'agenzia Adecco. L'ultimo contratto a termine è scaduto prima del permesso di soggiorno e così non lo ha potuto rinnovare.

Anche Sefa Skerdi lavorava. È albanese, sulla quarantina. Apre un borsone che tiene sotto il letto e mi mostra le ultime buste paga. Da dicembre 2006 a gennaio 2008. Milleduecento euro al mese. Autista per conto del corriere Alba, di Rimini. Vive in Italia dal 1998. Nel 2005 l'avevano arrestato per spaccio di droga. Era uscito con l'indulto dopo due anni di carcere. E si era rimesso a lavorare. Ma tutti i nodi vengono al pettine, e al momento del rinnovo del permesso, il precedente penale ha fatto saltare la pratica, come previsto dalla legge. Gli hanno ritirato i documenti e consegnato un foglio di via. Al primo fermo della polizia stradale, per il furgone fuori peso, l'hanno portato dentro. Lo dovrebbero rimpatriare nei prossimi giorni. Ma tutti i suoi effetti personali rimarranno nella casa a Rimini. E dei due finanziamenti in banca, per un totale di 70 mila euro, non sa che cosa succederà.

“Iktab – scrivi, mi dice in arabo un tunisino - siamo ostaggi, non siamo ospiti”. Lui è dentro da 50 giorni, preferisce non dirmi il suo nome. Viene da Redeyef. Nel sud ovest tunisino. Nella regione, dallo scorso gennaio, sono esplosi duri moti di protesta prontamente repressi dalla polizia tunisina. A Gradisca in tre tunisini vengono da quella regione. Ghafsa, Redeyef, Metlaoui. I minatori sono in sciopero generale. I loro familiari sono stati arrestati. Ma nella contabilità delle espulsioni tutto questo non conta. Un clandestino è un clandestino. Anche loro saranno rimpatriati. Oppure, scaduto il termine dei due mesi, saranno rimessi in libertà, ma senza diritti. Affidati al mercato del lavoro nero o della criminalità, fino al prossimo controllo dei documenti.

Gabriele Del Grande, pubblicato da Redattore Sociale