29 September 2007

La notte del destino


Il sole tramonta sui terrazzi rosa di El ‘Ayun, a metà strada tra il deserto e il mare. E, vorace, la notte prende a morsi gli ultimi lampi di luce del giorno alle porte, lungo un orizzonte di dune e cavi dell’alta tensione. Un militare sfoglia il mio passaporto con una torcia e mi legge negli occhi. Che viene a fare un turista italiano in città? È l’ultimo dei tre posti di blocco lungo l’unica strada diretta a sud e di nuovo il mio nome viene scritto nel registro degli ingressi. Dieci minuti dopo, le porte dell’autobus si aprono su un’affollata strada del centro illuminata a giorno dalle insegne dei negozi, le luci delle bancarelle e i faretti della moschea. Donne protette dai veli di coloratissime melhfas e uomini nascosti sotto turbanti neri e larghe daraá bianche o azzurre, si perdono tra le facce chiare di ragazzi in blue jeans e camicia. Mi addentro tra bancarelle di scarpe, insegne di piccoli funduq e negozi di cellulari. Ho appuntamento con un corriere segreto in una vicina teleboutique.

Dalle porte spalancate dei piccoli ristoranti prepotente sale un odore di cardamomo e frittura di pesce, mescolato a nuvole di fumo scaricate nell’aria dai vecchi fuoristrada che avanzano a colpi di clacson tra la gente e i carretti tirati dagli asini. Il brusio è rotto dalla voce dei microfoni della moschea. Allahu Akbar. Allahu Akbar. Sui marciapiedi vetrine di dolci, shebbakia al miele, montagne di baguette e colline di spezie. In piazza, davanti al masjid, i secchi neri di plastica con l’acqua che i fedeli usano per lavarsi il viso, le mani e i piedi prima di raccogliersi in preghiera sui tappeti tutto intorno alla moschea stracolma. Stasera è una notte speciale. Laylat al Qadr. La notte del destino: giorno 27 del mese santo di Ramadan. La tradizione ricorda l’anniversario della notte in cui l’angelo Gabriele rivelò per intero il Corano al profeta Mohammad. Un migliaio di persone ordinate guardano Mecca a piedi nudi sui tappeti intorno alla moschea.

Entro nella teleboutique che cercavo. Un ragazzo mi stringe la mano, sorride. Deve essere lui l’amico di M. «Assalumu ‘aleykum». «Wa ‘aleykum salam». Una delle cabine telefoniche è aperta. Entro fingendo di chiamare qualcuno e metto nella borsa il cd rom nascosto dietro il telefono dal mio complice. Quando esco quello se ne è già andato. Il commesso mi fa cenno di sì con la testa. Saluto. Niente di eversivo. Nel cd ci sono le immagini di un documentario francese e le foto di un recente naufragio dove annegarono 27 giovani saharawi. Quanto basta per farsi arrestare a El ‘Ayun. Il centro è tranquillo, lo struscio serale non desta sospetti, e i volti della gente sono amichevoli. Ma basta prendere un taxi per vedere le armi. Seduti ai bar e di fronte alle caserme squadre di soldati sorvegliano i passanti. Lungo le strade sventolano da tutti i lampioni le bandiere marocchine e i poster rossi del re di Rabat, Mohamed VI. Una camionetta di uomini in mimetica appena parcheggiata spegne i motori. L’intera città è militarizzata. Niente di nuovo. Sono appena arrivato nella capitale del Sahara occidentale, ultima colonia del continente africano.

Dune di sabbiaQui vivono gli uomini del deserto, i Saharawi, una quarantina di tribù nate da secolari fusioni tra i berberi Sanhadja e i conquistatori arabi arrivati dallo Yemen nel 1200. Nel 1973 il neonato Polisario, Fronte popolare per la liberazione del Saquia el-Hamra e Rio de Oro, lanciava la lotta armata contro i coloni spagnoli. Ma al ritiro di Madrid nel 1975 il Sahara veniva occupato militarmente dal Marocco a nord e dalla Mauritania a sud. Nouakchott si è ritirata nel 1984. Rabat invece è rimasta, in difesa degli storici confini del regno Alawita, che qui governava ben prima dell’arrivo degli spagnoli nel 1884. Un muro di terra di 2.720 chilometri, ultimato nel 1987, divide in due il Paese. A ovest 160.000 soldati del Marocco occupano i sette ottavi del Sahara, insieme a centinaia di migliaia di emigrati marocchini, che qui godono di speciali sussidi alla mobilità stanziati da Rabat per ridisegnare la demografia del Sahara. A est le milizie del Polisario, il governo ufficiale del Sahara e i campi profughi degli esuli a Tindouf, in Algeria.

Foto aerea dei naufraghi sul gommone foratoRisorse del computer. Cd. Visualizza anteprima. Sono foto a bassa risoluzione, fermi immagine di un video della spagnola Tve. Un gommone semiaffondato in mezzo al mare. Undici ragazzi in maglietta seduti stretti l’uno con l’altro a cavallo della camera d’aria meno sgonfia. Lo zoom mostra un trancio nella gomma dello Zodiac. Nient’altro. Chiudo in fretta i file e raggiungo M. e Yahdih in un anonimo bar di un anonimo quartiere per un tè sottovoce binnana, alla menta. Yahdih, trent’anni e una camicia italiana, è un pescatore di El ‘Ayun, uno dei pochi uomini di mare saharawi in uno dei più importanti porti mondiali per l’export di sardine. Tra i volti sfocati di quegli undici ragazzi in foto c’è anche un cugino di secondo grado di Yahdih. E un altro è tra i volti fuori scena, quelli cioè degli altri 27 giovani che dal gommone caddero in acqua quel 5 ottobre 2006, quando a 120 miglia a sud di Gran Canaria la camera d’aria dello Zodiac esplose rovesciando in acqua i suoi passeggeri.

Yahdih soffia sul tè e racconta. I 38 ragazzi a bordo erano tutti saharawi. Di due famiglie: Azarguiyin e Aitlahcen. Viaggiavano su un gommone Zodiac, ma vi avevano montato il motore di una barca, che ha una corsa dell’elica più lunga. Da Boujdour, 175 chilometri a sud di El ‘Ayun, erano partiti di notte, alle quattro del mattino. E di notte volevano arrivare a Gran Canaria, per non essere intercettati dalle pattuglie della Guardia civil. Per questo – continua Yahdih – durante le ore di luce si sono fermati in acque internazionali per aspettare il tramonto. Ma nell’attesa il gommone ha subito un calo di pressione per il sovraccarico abbassando anche la base del motore. Secondo Yahdih, una volta ripartiti una manovra errata avrebbe portato l’elica del motore sulla gomma, tranciando così la camera d’aria. Le immagini mostrano però uno strappo lontano dalla zona del motore. Difficile sapere cosa sia successo esattamente. L’unica certezza è la morte di 27 ragazzi. Tra loro c’era anche un sedicenne. Un bambino di 11 anni è riuscito a salvarsi.

Lungo le rotte per le Canarie nel 2006 sono partiti non meno di 500 giovani saharawi. Almeno cento non sono mai arrivati. Ormai si tende a partire con gli Zodiac, gommoni semirigidi costituiti da un tubolare gonfiabile e da una carena rigida. Costano anche 80.000 dirham, circa 8.000 euro, cinque volte una vecchia barca di legno, ma sono anche più sicuri, salvo l’incidente del 5 ottobre. Vengono importati, spesso dall’Italia, e trasportati comodamente in due pacchi su un fuoristrada fino al mare. Lì basta un compressore per gonfiarli e qualche chiave inglese per stringere i bulloni del motore. Anche il costo dei biglietti per lo Zodiac è maggiore: 10.000 dirham contro i 4.000 per una barca. Tutta la costa del Sahara è presidiata dai posti di controllo dei militari: una tenda mimetica ogni chilometro e a meno di 200 metri dall’acqua. Eppure si parte lo stesso. «La corruzione?» Domando. M. si mette a ridere e scuote la testa.

Usciamo dal bar, prendiamo la macchina e ci addentriamo nei vicoli bui del centro di El ‘Ayun. Sono le tre del mattino, ma siamo appena stati invitati a cena. Dopotutto è il 27 di Ramadan ed è una notte di festa. Ci apre la porta dell’appartamento al primo piano Salaka, una delle sorelle di B. Siamo ricevuti in un salotto di tappeti azzurri. Nell’angolo un grande televisore e uno stereo. Ai lati della stanza cuscini colorati e un poster della moschea di Mecca appesi al muro tra i quadretti decorati coi versetti del Corano. Arriva un’altra sorella di B. con il bambino e due cugini. Ci porta un vassoio di riso al pollo, latte acido di capra ben zuccherato e tè. Gli altri familiari sono andati alla moschea. Nessuno di loro sapeva della partenza dei ragazzi. E nessuno voleva credere a Hasanna, Dahmani e Laghzal, che due giorni dopo telefonavano dicendo che erano alle Canarie e che B. e Ch. e H. non ce l’avevano fatta. Ma su una cosa del genere Dahmani non poteva scherzare, nonostante i suoi 14 anni.

I segni delle frustate sulla schiena di un militante saharawi‘Ali mi mostra le foto del cugino Ch. Sono un po’ sfocate ma non c’è bisogno dello zoom per vedere le strisce viola delle frustate sulla carne viva. Sulla schiena di Ch. conto le croste di dieci colpi. Sull’addome una grande ustione, lungo le braccia i segni delle sigarette spentegli addosso e sul viso gli ematomi delle botte. Nella foto successiva Ch. tiene alta la bandiera del Sahara, dall’altro lato c’è H., il volto nascosto dietro un turbante bianco e le dita della mano destra sollevata aperte a V in segno di vittoria. Ch. aveva trent’anni. Disoccupato, era stato arrestato più di una volta per la sua attività politica a favore dell’indipendenza del Sahara ed era ricercato dalla polizia marocchina. Una settimana prima di partire, racconta il fratello, aveva incontrato il capo delle forze di polizia di El ‘Ayun, Ishi Abu al-Hassan, che lo avrebbe minacciato di nuovi arresti e torture, se non se ne fosse immediatamente andato dal Sahara. Lo stesso per B., classe 1985. A gennaio 2006 era stato arrestato durante una manifestazione in città. Dal carcere nero di El ‘Ayun era uscito soltanto sei mesi dopo e non era più lo stesso. H. era il più piccolo. Aveva soltanto 15 anni, abbastanza per essere arrestato e torturato, nel maggio 2006. Tre storie troppo simili per pensare a una coincidenza.

Il gioco è semplice. La polizia rende la vita impossibile agli attivisti politici con continue persecuzioni psicologiche e fisiche, arresti arbitrari e pedinamenti. E i passeurs consigliano agli stessi di partire verso la Spagna, spesso anche gratis. I familiari conoscono i nomi di chi tiene le fila di questo sporco gioco. Malaini Lambarki. Arrestato a El ‘Ayun per traffico di esseri umani nel 2000, e liberato dopo 3 anni di carcere. Attualmente lavora tra Agadir e El ‘Ayun ed è a capo delle rete che organizza i viaggi delle pateras dal Sahara alle Canarie. Voci diffuse lo danno in ottimi rapporti con Hassan Abu Naaj, funzionario dei servizi segreti marocchini del Dag, e con Baija Bunaj, altro funzionario dell’intelligence. Per ogni uomo che lascia il Sahara, giura ‘Ali, Lambarki riceve un premio in denaro. Che arrivi in Spagna o muoia annegato, poco importa.

Tre militanti saharawi con una bandiera dello Stato del Sahara occidentaleDopo i moti del maggio 2005 il copione si ripete puntualmente. Due mesi dopo la morte di B., Ch., H. e dei loro compagni, altri 31 giovani saharawi sono annegati l’ultima settimana di novembre a una ventina di chilometri da Boujdour; 17 cadaveri sono dispersi in mare. «Nel naufragio delle due pateras esiste una responsabilità diretta del governo marocchino». L’ong spagnola Comisión española de ayuda al refugiado (Cear) accusa Rabat. Le testimonianze raccolte a Gran Canaria coincidono con le voci di El ‘Ayun: «In molti casi le forze di polizia marocchine istigano i giovani attivisti a partire». Lo dice anche il Polisario: «Le forze di sicurezza marocchine hanno patti con i passeurs, che ricevono quantità sostanziose di denaro per ogni emigrante saharawi che lascia il Paese». Tra i morti di novembre si legge anche il nome di Naji Dohatem, classe 1976, da anni impegnato nella lotta per l’indipendenza. Cinque mesi prima, l’8 luglio 2006, uno Zodiac battente bandiera del Sahara era sbarcato a Las Palmas. Tra i 41 passeggeri saharawi a bordo c’era anche Buchara Nafá, indipendentista liberato nel marzo 2006 dopo 10 mesi di prigione al Cárcel Negra di El ‘Ayun. Lo avevano arrestato nel maggio 2005, quando le manifestazioni di El ‘Ayun vennero represse nel sangue.

Un rapporto di Amnesty International documenta torture e maltrattamenti di centinaia di militanti detenuti tra maggio e dicembre 2005. Due ragazzi saharawi morirono pestati a sangue dalle forze armate marocchine. Stessa storia un anno dopo. Nel 2006 le forze di sicurezza di Rabat hanno arrestato 685 persone. Nel frattempo, decine di pateras hanno preso il largo, cariche di esuli politici seduti a fianco dei giovani stanchi dell’occupazione militare e frustrati dalla disoccupazione.