08 June 2008

Israele nuova meta per i rifugiati eritrei e sudanesi

TEL AVIV, giugno 2008 - Nel solo mese di giugno 2008, gli spari della polizia hanno ucciso tre profughi lungo il confine egiziano con Israele. Una delle vittime è una bambina sudanese di sette anni. Quella del Sinai si conferma la nuova rotta dei rifugiati eritrei e sudanesi, che alle carceri libiche e alla morte in mare preferiscono lo Stato ebraico. Nel 2007, secondo l’Unhcr, ne sono arrivati almeno 5.000. Intanto l’Egitto ha rinforzato i propri dispositivi di controllo, autorizzando la polizia di frontiera ad aprire il fuoco sui migranti. Dall’inizio dell’anno i morti ammazzati sono almeno 16. Messo sotto pressione da Israele, l’Egitto ha avviato una vasta operazione di arresti e deportazioni, colpendo in modo particolare gli eritrei. Secondo Amnesty International, su un totale dei 1.600 eritrei detenuti nei campi di detenzione egiziani, 810 sono già stati deportati dall'11 giugno 2008. Si tratta della più grande deportazione mai organizzata negli ultimi anni dall'Egitto e potrebbe segnare il passo di una nuova stagione di repressione al Cairo. Intanto chi ce l'ha fatta cerca una nuova vita in Israele.


Har Zion street numero tre. È uno degli indirizzi della diaspora eritrea a Tel Aviv. Uno stabile su tre piani, occupato da un centinaio di rifugiati del Corno d'Africa. I materassi sono dappertutto. Sui pianerottoli delle scale, lungo i corridoi. Beyené apre la porta di una camera di quattro metri per quattro, ci dormono in tredici. Alle undici del mattino la televisione è accesa e alcuni sono ancora a letto. Beyené è eritreo. È a Tel Aviv da 25 giorni. È entrato dall'Egitto. Dal Sudan era partito con la moglie. Ma lei è ancora detenuta a Ketziot, il campo di detenzione israeliano nel deserto del Sinai. Beyené è solo uno dei circa 10.000 richiedenti asilo entrati in Israele negli ultimi anni. È cominciato tutto nel 2006 con circa 1.200 ingressi dal Sinai, sei volte i 200 dell'anno precedente. E poi i 5.500 arrivi nel 2007 e i già 2.000 del primo trimestre del 2008. Sono soprattutto sudanesi e eritrei. E non è un caso. Il 30 dicembre 2005, 4.000 agenti egiziani in tenuta antisommossa assalivano i circa 3.500 profughi sudanesi che da tre mesi presidiavano il parco “Mustafa Mahmoud” del quartiere residenziale di Mohandessin, al Cairo, a poche centinaia di metri dagli uffici dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, chiedendo di essere reinsediati in un Paese terzo. Alla fine degli scontri si contarono 26 morti, tra cui 7 donne e 2 bambini. Il clima di repressione in Egitto, l'impossibilità di tornare in patria, nel Darfur come nel Sud Sudan, e i rischi del viaggio in mare verso l'Italia, hanno aperto una breccia nella barriera di filo spinato che separa l'Egitto e Israele. E ai convogli dei sudanesi sono seguiti quelli dei rifugiati eritrei, molti dei quali in fuga dal Sudan, dove il 2 giugno il governo ha ordinato la chiusura degli uffici dell'opposizione eritrea.

Beyené viveva a Khartoum da due anni. Con la moglie hanno pagato 800 dollari a testa per il viaggio verso Assuan, in Egitto. Un viaggio relativamente semplice, dice ,meno duro della traversata del deserto verso Kufrah, in Libia. Da Assuan al Cairo sono arrivati in treno. Alla stazione li aspettava un connection man. Altri 700 dollari a testa e nel giro di pochi giorni sono partiti alla volta della frontiera. Un pezzo di strada nei camion. E poi a piedi, di notte, in pieno deserto, finché le guide, egiziane, hanno tagliato con delle cesoie la barriera alta un metro di filo spinato e gli hanno detto di aspettare le pattuglie dell'esercito dall'altro lato. Una volta intercettati sono stati portati al campo di Ketziot. È una tendopoli con 1.200 posti, inaugurata nel luglio 2007 nel cortile di un carcere alle porte di Gaza utilizzato per la detenzione amministrativa dei prigionieri politici palestinesi. La moglie di Beyené è ancora là. Lui l'hanno rilasciato con un documento temporaneo di “conditional release”. Nel frattempo si può lavorare, ma soltanto nella città cui è stato assegnato. A metà luglio il permesso temporaneo scade. Dovrebbero rinnovarlo, ma niente è sicuro. Intanto la domanda d'asilo pende presso l'Unhcr, che però non ha abbastanza personale per far fronte alle interviste, e si concentra piuttosto nelle richieste di rilascio dei migranti detenuti a Ketziot e nella ricerca di regolarizzazioni collettive, come il permesso temporaneo di un anno recentemente rilasciato a 600 sudanesi del Darfur e il permesso di lavoro di sei mesi dato a circa 2.000 eritrei. I rifugiati riconosciuti dall'Acnur e dal governo israeliano sono solo 86. Intanto, il 19 maggio 2008, il parlamento israeliano ha approvato in prima lettura la modifica della legge anti infiltrazione: riaccompagnamento immediato alla frontiera e 5 anni di carcere per il reato di immigrazione clandestina, 7 per i cittadini degli Stati nemici: Iran, Afghanistan, Libano, Libia, Sudan, Iraq, Pakistan, Yemen e Palestina. La proposta di legge torna adesso in commissione e sarà votata altre due volte. Intanto però, sui banchi del Parlamento non c'è nessuna proposta di legge sull'asilo. I motivi sono tanti. La questione politica dei rifugiati palestinesi e più in generale dei rifugiati degli Stati nemici di Israele sopra elencati, il possibile arrivo di parte dei due milioni di rifugiati iraqeni residenti in Siria e Giordania e la questione ideologica dello Stato ebraico. A Tel Aviv chiunque lo dice: “We are not supposed to be an immigration State, but a Jew State”. Non siamo uno Stato di immigrazione ma uno Stato ebraico. Ad essere i benvenuti sono soltanto i circa 180.000 lavoratori stranieri impiegati nel Paese - nepalesi, cinesi, thailandesi, indiani o filippini – ma soltanto perché mantenuti con un permesso di soggiorno temporaneo e senza possibilità di ricongiungimento familiare