04 August 2011

Samhini yamma. Chissà se la madre di Amir capirà

Samhini Yamma, Ashref

Stazione di Torino Porta Nuova. Il treno regionale per Bologna delle 18:20 è in partenza al binario 10. Dietro il finestrino, Mahmud si infila gli auricolari dell’iPhone e schiaccia play. Samhini yamma di Ashref. Forse ha sbagliato canzone. O forse è proprio quella giusta per questo momento. Samhini yamma, perdonami mamma. Perdonami se me ne sono andato, perdonami l’esilio, perdonami l’assenza. A salutarlo dal marciapiede del binario c’è un ragazzo con gli occhi arrossati dalle lacrime. È il suo migliore amico. Singhiozza. Sono cresciuti insieme per le strade di Sfax, in Tunisia. Insieme hanno lavorato per anni sui pescherecci di Kerkennah e insieme hanno fatto la traversata per Lampedusa. Era il 24 gennaio. Sono passati sei mesi da allora. E adesso è arrivato il momento più difficile del viaggio. Il momento di dirsi addio. Mahmud va a Parma, Hasan a Parigi. Raggiungono i parenti. In tasca hanno un foglio di via. Li hanno appena rilasciati dal centro di identificazione e espulsione di Torino, insieme a un altro amico della comitiva di Sfax, Amir, che ha fatto la traversata sulla loro stessa fluca (barca) insieme a altri sei passeggeri. Per loro il viaggio ricomincia da qui. Dopo sei mesi di detenzione. Con la stessa determinazione di riuscire, ma con molta più amarezza nel cuore. Perché l’Europa che hanno sognato per anni, ha cessato di esistere nel loro immaginario.

Per Mahmud l’immagine dell’Europa è sfocata pian piano, al crescere delle dosi di psicofarmaci che prendeva dentro il Cie di Torino. Trenta gocce di Rivotril al mattino, trenta al pomeriggio e trenta alla sera. Per spegnere la mente. E dormire più a lungo possibile. Ancora non ha recuperato la vivacità dello sguardo dei suoi 26 anni. Ma va già meglio di ieri, quando appena uscito dal Cie metteva le sigarette in bocca intontito e poi si dimenticava di accenderle.

Per Hasan invece l’Europa dei sogni si è trasformata in una macchia viola, scura come i lividi che gli hanno lasciato le manganellate della polizia sulla schiena. Era l’inizio di febbraio. L’idea era stata di tutti e tre, lui, Mahmud e Amir. Di nodi se ne intendevano bene perché hanno lavorato per anni come marinai in Tunisia. A forza di intrecciare le lenzuola erano riusciti a ottenere una corda lunga nove metri, con un nodo ogni mezzo metro per arrampicarsi meglio. Il resto avvenne in un attimo. Lanciarono la corda al di là della gabbia di ferro alta cinque metri. Mahmud e Amir la tenevano dal basso e Hasan che era il più leggero si lanciò nell’arrampicata. Saltato giù dalla rete corse verso l’uscita su corso Brunelleschi con tutta la forza che aveva nelle gambe. Ma non fu abbastanza rapido.

I militari di guardia nelle garitte lo bloccarono a pochi metri dall’uscita. Non gli torsero un capello davanti agli altri reclusi affacciati alle gabbie. Si limitarono a prenderlo sotto braccio e a condurlo di buona lena verso gli uffici della Croce Rossa. Fu lì che avvenne il pestaggio. Se ne occupò la polizia. In due lo tenevano per le braccia. E un terzo da dietro gli sferrò due calci nei calcagni per farlo sbilanciare e cadere, e poi giù di colpi con i manganelli. Il solito pestaggio punitivo. Al Cie di Torino è la prassi. Ne sa qualcosa anche il terzo ragazzo della comitiva di Sfax, Amir. Che di quelle violenze porterà per sempre un segno indelebile sul braccio sinistro.

Vanno dal bicipite al polso. Parallele, una sotto l'altra, sottili e ancora arrossate. Sono le cicatrici dei tagli. I tagli che si fece con un pezzo di vetro di una finestra per farli smettere di picchiare. Quel giorno lo avevano preso in sei. Non sa dire se fossero poliziotti o finanzieri. Sa solo che non la smettevano di picchiarlo e che l'unica idea che gli venne in mente per fermarli fu quella di riempirsi di sangue tagliandosi le vene.

Tutto era cominciato la mattina nell'area gialla dove era recluso. Aveva avuto una brutta discussione con un ispettore. Gli aveva detto che il cibo era immangiabile. E quando il poliziotto gli aveva risposto che se non gli piaceva lo poteva pure buttare via, lui glielo aveva tirato addosso in un gesto di sfida, contro la gabbia di ferro che li separava. Il pestaggio fu la lezione che decisero di impartirgli per addomesticarlo. Un po' come fanno certe persone con i cani quando non obbediscono. Per essere poi sicuri che avesse imparato una volta per tutte la lezione, dopo le bastonate lo spedirono all'isolamento.

Due mesi rinchiuso in una stanza. Da solo. Tutto il giorno, a parte l’ora d’aria nel campetto di calcio per sgranchirsi le gambe. Il sogno dell’Europa di Amir è finito per sempre là dentro. Un giorno di primavera, appeso al cappio che si mise intorno al collo quando decise che era troppo. E che non valeva più vivere, continuamente umiliati e trattati come animali. Se la morte non se lo portò via, ironia della sorte, fu proprio grazie a un militare. Un alpino di guardia alla garitta di fronte all'isolamento. Che appena vide la scena, corse sul posto con un coltellino a tagliare la corda con cui Amir si era impiccato, giusto in tempo per portarlo in infermeria senza che il tentato suicidio potesse avere ripercussioni sulla sua salute. Dopodiché fu la volta dell'incendio.

In quel periodo, i tunisini reclusi nel Cie non parlavano d’altro. Come scappare e tornare in libertà, per poter finalmente proseguire il viaggio verso la Francia come avevano fatto i primi arrivati a Lampedusa e lasciati fuggire dai centri di accoglienza di Bari e Crotone e dalle tendopoli tipo quella di Manduria. Constatato che l'evasione era impossibile, che gli psicofarmaci non facevano che rovinargli la salute e che il suicidio era soltanto una follia, qualcuno iniziò a pensare che non rimaneva che il fuoco. Se avessero reso inagibile il centro, da qualche altra parte avrebbero pure dovuto trasferirli e magari li avrebbero rilasciati.

All'area gialla parteciparono spontaneamente alla rivolta quattro camerate su cinque. Era il 18 febbraio. I reclusi appiccarono il fuoco a materassi e lenzuola. La sezione venne devastata dalle fiamme e dopo l'intervento dei vigili del fuoco venne chiusa, per permettere i lavori di ristrutturazione. Dal Cie però non venne fatto uscire nessuno. Al contrario, due tunisini finirono in galera con pesanti accuse di incendio e devastazione. E gli altri si videro negato in modo arbitrario il permesso umanitario di sei mesi che il governo italiano aveva nel frattempo deciso di concedere a tutti i tunisini sbarcati in Italia prima del 5 aprile.

Così i tre amici di Sfax hanno dovuto aspettare lo scadere dei sei mesi di detenzione prima di tornare in libertà. Sono usciti il pomeriggio di mercoledì scorso. E dopo un giorno, eccoli già in partenza. Mahmud e Hasan sono partiti per primi. Amir ha aspettato due giorni in più. Il tempo per disintossicarsi dagli psicofarmaci e per riambientarsi alla vista del cielo all’orizzonte e al rumore delle automobili, ai colori dei negozi e alle risate dei passanti, alle voci dei bambini e ai profumi del cibo buono.

Confuso tra la folla dei viaggiatori alla stazione di Torino Porta Nuova, sembra un ragazzo qualunque in partenza per il mare. Pantaloncini corti, maglietta, e alle spalle uno zainetto con un paio di cambi. La differenza è che in tasca ha un foglio di via. Gli hanno dato sette giorni per lasciare l’Italia. Gliene restano quattro. Dopodiché sarà di nuovo illegale. E potrà in qualsiasi momento essere di nuovo fermato dalla polizia e riportato in un Cie per altri 18 mesi.

Sa dei rischi. Sa che la vita sarà dura. Ma da buon marinaio è abituato a navigare in cattive acque. E poi i rischi fanno parte dell'avventura. L'importante è non perdere la rotta. Per ora è salito sul treno per Civitanova, nelle Marche lo aspetta un compaesano. In Tunisia non potrà tornare per lunghi anni, fino a quando non avrà un documento di soggiorno. È la clandestinità. Samhini yamma. Chissà se la madre di Amir capirà.


Sabato 6 agosto 2011, questo articolo è stato letto su Radio 3 durante la trasmissione Pagina 3. Cliccando qui potete riascoltare la trasmissione in podcast