16 August 2011

Che cosa sarà dei profughi della guerra di Libia?


Il 2008 fu l'anno record degli sbarchi dalla Libia. A Lampedusa arrivarono 30mila persone in dodici mesi. Poi fu la volta dei respingimenti nel 2009 e degli sbarchi zero l'anno successivo. Ora, con l'esplosione della guerra in Libia le traversate sono riprese con la stessa intensità di prima. Ma con la differenza che questa volta nei centri di accoglienza la tensione è alle stelle. Maroni ha deciso che i profughi saranno espulsi. E da Bari a Crotone, da Trapani a Mineo, abbiamo assistito a proteste, rivolte, scontri e arresti. E allora è arrivato il momento di fare chiarezza. Chi sono le persone che stanno arrivando? Che cosa è cambiato dal 2008? E che cosa sarà dei profughi della guerra di Libia?

Partiamo dal 2008, perché da allora è cambiato tutto. In quel periodo arrivavano a Lampedusa soprattutto rifugiati politici eritrei e somali, che alle spalle si lasciavano guerre e dittature del Corno d'Africa. Viaggiavano insieme a avventurieri nigeriani e maliani, camerunesi e ivoriani, egiziani e tunisini, che in Italia venivano a cercare fortuna e lavoro. Il business  delle traversate, dai 1.000 ai 2.000 euro a passeggero, era affidato a contrabbandieri libici, che con l'aiuto di intermediari di ogni nazionalità e con la connivenza della polizia locale corrotta, si garantivano un giro d'affari stimabile tra i 50 e i 100 milioni di euro l'anno.

Ma non erano soltanto funzionari di polizia a chiudere un occhio. Era tutto il regime, Gheddafi in testa, a incoraggiare le partenze per alzare la posta in gioco sul tavolo del negoziato con l'Italia e con l'Unione europea, così ossessionate dalla questione sbarchi. E infatti nel 2009, subito dopo la ratifica da parte del parlamento italiano del trattato di amicizia italo libico firmato da Berlusconi a Benghazi nell'estate del 2008, la frontiera venne chiusa definitivamente.

Non furono i respingimenti a bloccare gli arrivi. In fin dei conti i respinti furono poco più di un migliaio. Tutti gli altri semplicemente non partirono mai. Arresti mirati e ordini speciali impartiti a funzionari e capimafia furono più che sufficienti a chiudere definitivamente quella stagione. Gheddafi aveva ottenuto quello che voleva: un risarcimento per i crimini di guerra commessi dalle truppe italiane durante il colonialismo. Un risultato che gli dava consenso interno e prestigio internazionale tra i leader delle ex colonie, per avere ottenuto ciò che nessun altro fino ad oggi è mai riuscito a ottenere. Una condanna formale e un versamento riparatorio. Per quanto simbolico.

Sì perché 5 miliardi di dollari, da pagare in vent'anni, rappresentano una cifra irrisoria rispetto al giro d'affari tra Italia e Libia per l'estrazione di petrolio e gas naturali, la ricostruzione, e gli investimenti libici in banche e grandi imprese italiane. Ad ogni modo, a partire dal maggio 2009 gli sbarchi dalla Libia andarono diminuendo fino ad azzerarsi nel corso del 2010. Poi però è cominciata la guerra ed è cambiato tutto.

Il grande esodo è iniziato sin dai primi giorni. A partire da metà febbraio, quando le tre giornate di rivolta per la liberazione di Benghazi portarono alla morte di oltre 300 manifestanti libici e di un numero imprecisato di miliziani di Gheddafi e di lavoratori africani. Gente comune contro la quale si scatenò la rabbia incontrollata della popolazione ancora scioccata per le violenze e i crimini commessi dalle milizie del regime e dai mercenari africani arruolati tra le sue file. E infatti gli africani furono i primi a partire. Seguiti a ruota da tunisini e egiziani, che rappresentano le più importanti comunità di stranieri nel paese. E quindi dai lavoratori di tutto il mondo, compresi migliaia di cinesi, pakistani e bangladeshi.

L'Organizzazione internazionale delle migrazioni, da allora monitora le frontiere terrestri libiche ed ha calcolato che oltre 650.000 persone hanno lasciato il paese via terra, raggiungendo l'Egitto, il Sudan, il Chad, il Niger, l'Algeria e la Tunisia. Ed è un dato parziale perché non tiene conto di tutti quelli che se ne sono andati clandestinamente sui camion che hanno attraversato il deserto verso sud. E di tutti quelli che hanno lasciato il paese in aereo, fino a quando i collegamenti aerei con Tripoli hanno funzionato. Dopodiché sono iniziate le partenze via mare.

I primi sbarchi sono stati registrati nel mese di marzo. Con un certo ritardo rispetto a quanto ci si aspettava potesse accadere. Il motivo era semplice. A febbraio anche Tripoli era scesa in piazza. E le manifestazioni erano state represse duramente nel sangue. Al punto che nessuno si azzardava ad uscire di casa. A maggior ragione gli africani, che temevano il linciaggio per strada se scambiati per errore per i mercenari neri di Gheddafi. Le condizioni sul terreno erano troppo difficili perché i contrabbandieri che fino a tre anni prima gestivano gli imbarchi potessero rimettersi al lavoro. Almeno fino a quando il Colonnello non ha dato ordine che iniziassero le deportazioni in Italia.

L'intento era chiaramente una ritorsione contro i bombardamenti in Libia. All'inizio il regime forniva soltanto un appoggio logistico. I pescherecci per le traversate venivano imbarcati direttamente nei porti libici (al porto commerciale di Tripoli, al porto militare di Janzur e al porto commerciale di Zuwara), e i prezzi della traversata erano in stagione di saldi. Al massimo 500 euro a persona. Alle operazioni di carico assistevano direttamente i militari di Gheddafi, coadiuvati dagli stessi intermediari appositamente rilasciati dal carcere.

I primi a partire sono stati gli eritrei e i somali. Poco più di un migliaio di persone che da più di due anni erano bloccati a Tripoli, compresi decine di respinti dall'Italia nel 2009. Dopodiché hanno iniziati a partire gli altri. Tutti lavoratori professionisti: carpentieri, gessisti, imbianchini, saldatori, tornitori, meccanici, elettricisti. In una parola la classe operaia della Libia del boom economico del post embargo.

Gente che all'Europa non c'aveva mai pensato. Ma che sotto le bombe ha preso l'unica decisione sensata: andarsene prima che fosse troppo tardi. Perché se un giorno i ribelli entreranno a Tripoli sarà un bagno di sangue in città. E agli africani accadrà quello che è già accaduto a Benghazi. Si ritroveranno tra due fuochi, scambiati dagli uni come collaborazionisti degli insorti e dagli altri come mercenari del regime.

A un certo punto però, le partenze per Lampedusa sono rallentate. Perché di gente disposta a partire non ce n'era più, fondamentalmente perché Tripoli e la Libia tutta si erano svuotate. Per un periodo hanno continuato a partire quelli dei campi profughi in Tunisia, che dopo aver capito che l'Europa non avrebbe aperto alcun corridoio umanitario per evacuarli, sono rientrati in Libia per imbarcarsi a proprio rischio e pericolo. Ad ogni modo erano ancora pochi. E allora il regime è corso ai ripari.

E sono iniziate le partenze forzate. Ce l'hanno già raccontato in tanti. Delle retate delle milizie di Gheddafi strada per strada, casa per casa, nei quartieri neri di Tripoli e delle poche altre città ancora controllate dal regime. Caricati sui camion container verso i porti e da lì costretti a imbarcarsi. Il viaggio è gratuito, offre il regime.

Succede così, ai tempi della guerra, di essere deportati in Europa dalle milizie di Gheddafi. Una situazione mai vista prima. A cui però il governo italiano ha risposto in modo paradossale. Dando cioè un giro di vite sulle richieste d'asilo politico, ovvero concedendo meno documenti di protezione internazionale di quante ne desse prima della guerra.

Ai tempi degli sbarchi nel 2008 infatti, tre persone su quattro chiedevano asilo politico e la metà otteneva una qualche forma di protezione internazionale. Oggi invece Maroni ha annunciato un cambio di strategia: i profughi della guerra libica saranno espulsi. E le prime risposte delle commissioni territoriali per il riconoscimento dello status di rifugiato hanno eseguito alla lettera.

Con l'eccezione di somali ed eritrei, non espellibili per la situazione critica dei loro paesi (la Somalia è in guerra civile da vent'anni, l'Eritrea è sotto la morsa del regime di Afewerki), tutti gli altri stanno perlopiù ricevendo il diniego delle loro richieste d'asilo.

Il teorema è semplice. I 23.000 profughi della guerra in Libia arrivati in Italia, non sono libici, a parte un centinaio di persone, e dunque possono tornare nel loro paese. Dal momento però che l'Italia non ha i mezzi, né economici né logistici, per rimpatriare un così grande numero di persone in un così breve lasso di tempo, oltretutto senza la collaborazione delle ambasciate dei loro paesi, l'unica conseguenza di queste scelte sarà ancora una volta la produzione di clandestinità.

La fabbrica lavora a pieno regime. Ogni giorno chi riceve il diniego, se non fa ricorso, si trasforma in un “clandestino”. E sarà costretto a vivere i prossimi anni senza poter lavorare, né affittare una casa. E senza avere i mezzi per rientrare in modo autonomo nel proprio paese. E tempo qualche anno, li troveremo in mezzo alla strada, nei palazzi occupati delle nostre città, alle file delle mense della Caritas, e nelle gabbie dei centri di identificazione e espulsione. Lavoratori professionisti, gente responsabile di se stessa e della propria famiglia, trasformati in soggetti emarginati, assistiti e braccati dalle forze dell'ordine.

Eppure soltanto quattro mesi fa, ad aprile, il governo aveva riconosciuto per decreto un permesso umanitario di sei mesi a più di 14.000 tunisini dei 24.000 che erano arrivati dal primo gennaio al 5 aprile. Adesso quali sono le controindicazioni per ripetere l'operazione? C'è qualche valutazione politica, o è soltanto paura di perdere ulteriore consenso interno tra l'elettorato più xenofobo e razzista del paese?

Intanto però l'unico amaro frutto di queste politiche è la rabbia che sta covando tra le migliaia di persone arrivate da un paese in guerra e parcheggiate nei mega centri di accoglienza, che vedendo arrivare i primi dinieghi alle loro richieste di protezione internazionale, per la prima volta capiscono che in Italia non avranno nessuna possibilità.

Ps La notizia degli imbarchi forzati verso Lampedusa è confermata anche in questa nota alla stampa delle Nazioni Unite del 16 agosto 2011




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